Auditorium-Centro musical  

Località: Colle Lepanto 150, Barcellona
Committente: Consorcio dell'Auditorio de Barcellona
Progettista: Rafael Moneo
Collaboratori: Maria Fraile, Lucho Marcial, Mauricio Bertet, Mariano Molina, Mònica Company, Filip de Watcher, Michael Bischoff, Astrid Peissard
Strutture: Mariano Moneo
Impianti. Juan Gallostra y Asociados
Acustica: Higini Arau
Impresa di costruzione: Fomento de Construcciones y Contratas, Ferrovial, Necso, Acsa, Isolux
Datazione incarico: 1988
Datazione lavori opera: 1990 - 1999
Inaugurazione: marzo 1999
Totale superficie costruita: mq 40.000
Superficie sala sinfonica: mq 22.000
 
E' certamente difficile riconoscere come tale una architettura-manifesto se il programma di cui essa si fa testimone consiste nella rinuncia alla riconoscibilità. Tuttavia, se leggiamo l'edificio di Barcellona in parallelo con lo straordinario piano di lavoro tracciato da Moneo nella Kenzo Tange Lecture con cui avvia il suo insegnamento ad Harvard (`The Solitude of Buildings', 9 marzo 1 985, ora in 'Casabelia', 666) non possiamo che trovare nel primo la puntuale realizzazione pratica del secondo. Ciò ne fa un edificio radicale e difficile ma, in quanto tale, meritevole di particolare attenzione. L'auditorium sorge tra il Carrer de Lepant, poche centinaia di metri più a sud della Sagrada Familia, e il Carrer de Zamora, all'altezza della Avinguda Meridiana, una delle grandi arterie che attraversano liberamente il tessuto regolare dell'Eixample. Ma non si può certo dire che Moneo trasformi tale collocazione in un tema progettuale, fatta forse eccezione per l'orientamento dell'ingresso principale verso il Carrer de Ausiàs Marc. Laddove molti si sarebbero impegnati in un esperimento di progettazione urbana, con tanto di analisi storica e inevitabili riferimenti al PIan Cerdà, Moneo assume con rassegnazione il dato di una totale assenza di qualità del luogo e decide, secondo le sue stesse parole, che un monologo architettonico è meglio di un finto dialogo con la città. L'impianto generale, dunque, è del tutto esente dall'ansia di ricomporre, grazie a un 'segno urbano', la casualità che è, e normalmente resta a dispetto delle ricomposizioni sulla carta, non l'anomalia ma l'ineludibile norma di sviluppo della città contemporanea. In altri termini, Moneo si libera, innanzi tutto, dell'illusione di poter compiere scelte compositive o formali nascondendosi dietro la presunta scientificità di una disciplina analitica. Ciò rende ancor più notevole la capacità di non cedere alla tentazione opposta: trasformare il complesso programma funzionale cui l'edificio deve rispondere in un libero gioco di invenzioni plastiche o figurative. Il Teatro Nazionale di Catalogna progettato da Bofill, che sorge a pochi metri di distanza, ben esemplifica l'indecente convinzione di dover e saper 'redimere' un luogo senza qualità mediante il presunto tocco di grazia di una invenzione individuale. Due sale da concerto, rispettivamente da 2500 e da 700 posti, un museo della musica, una biblioteca, un centro studi, laboratori, ristoranti, servizi, un complesso sistema di percorsi che rende autonomi i diversi componenti dell'edificio e, infine, una grande piazza coperta accessibile a macchine e pedoni, dove la 'non qualità' del luogo è addirittura invitata a entrare nel cuore stesso della nuova architettura; c'è materia per decine di invenzioni architettoniche, eppure Moneo racchiude il tutto in una grande scatola, un parallelepipedo appena scomposto in articolazioni volumetriche proporzionalmente minime, senza alcuna vera gerarchia dei prospetti e, soprattutto, di una disarmante laconicità. Se si prescinde da rare eccezioni in scala minore, come l'aggettante pensilina che marca l'accesso principale, l'edificio mostra all'esterno solamente una superficie isomorfa determinata dall'uso di una gabbia in cemento armato con tamponatura in pannelli di acciaio verniciato, Il sistema delle bucature rispetta la regola dettata dalla gabbia, tranne alcune eccezioni che interrompono la texture dei pannelli ma non ne trasgrediscono mai la trama e la modularità. È' un tema sempre più evidente nella ricerca di Moneo (si pensi al Centro Kursaal di S. Sebastian) e che egli stesso (El Croquis, 64) definisce come 'compattezza' ('compacidad'): l'utilizzo di un sistema continuo per generare un involucro chiuso all'interno del quale comporre lo spazio con grande libertà. La compattezza, in quanto scelta radicalmente antifigurativa e perciò contrastante con le principali linee di ricerca della architettura novecentesca, apre quanto meno due linee di possibile analisi.
Da un lato meriterebbe attenzione il diretto riferimento alle ricerche utzoniane sull'architettura addizionale e modulare, a Barcellona reso più evidente dall'esplicito richiamo alla chiesa di Bagsvaerd. Un riferimento che Moneo arricchisce, sul piano teorico, con allusioni all'architettura di Scamozzi e ai principi compositivi non antropomorfici dell'architettura islamica, per arrivare a una critica esplicita del principio lecorbusieriano di continuità tra esterno e interno. Dall'altro lato, la compattezza risponde anche alle necessità di quella che Moneo definisce come una 'iconografia' attuale. L'edificio non è il riflesso di un meccanismo compositivo ma un oggetto silenzioso che vive consapevolmente nella città, senza esibire la ricchezza della sua vita interna e deciso a 'non infrangere le regole della buona educazione"
Ciò che Moneo profila sul piano teorico e sperimenta, con coraggioso rigore, a Barcellona, è una nuovo etica architettonica o, piuttosto, il recupero di un'etica antica e perduta. Per ritrovare vitalità l'architettura deve rinunciare alle illusioni sul proprio valore di forma simbolica, e alla conseguente fuga nella regione utopica del progetto, per riconsegnarsi alla realtà. O, più precisamente, per mettersi nuovamente al servizio dello realtà. Ma per ritornare a fare parte della realtà, l'architettura deve, secondo Moneo, rivedere radicalmente non tanto le proprie scelte formali quanto il proprio stesso statuto; deve cessare di voler essere un'astrazione da impiantare nella realtà con la speranza di vedere la realtà adeguarsi al progetto; deve gettarsi fuori dal progetto inteso come prefigurazione e trasformarsi nella capacità di raccogliere una molteplicità di cose e persone nella semplice presenza di un edificio. Ciò implica scelte difficili e anacronistiche quali la rinuncia o forme arbitrarie in favore di una forma dettata dalle regole del costruire oppure la ricerca di una rinnovata coerenza tra convenzione grafica e convenzione costruttiva, dunque tra progetto e produzione.
La volontà di riconsegnare l'architettura alla realtà implica, tuttavia, una scelta ancor più difficile che consiste nel concepire la costruzione come un atto di progressivo straniamento dell'oggetto architettonico dal suo ideatore e inventore. La realizzazione diviene, non più una forzoso trasposizione del progetto grafico nella realtà ma una consunzione del progetto, una sua cancellazione a favore di una autonoma presenza dell'edificio nel mondo delle cose. Oltre ad essere il fondamento di un nuovo decoro, la trasformazione dell'architettura da espressione individuale a fatto impersonale è fonte, sostiene Moneo, di una grande felicità squisitamente architettonica, la felicità che deriva dall'aver trasformato un pensiero in sostanza al punto di poterlo osservare con distacco nella sua nuova condizione di cosa. Ciò non implica, naturalmente, una rinuncia al progetto. Ai contrario, richiede una capacità progettuale più affinata, in grado di ricomprendere nel pensiero progettuale le molte presenze che l'architettura riunirà e la consapevolezza della futura vita dell'edificio come oggetto tra gli oggetti. La trasformazione della architettura da progetto in cosa si può ottenere solo portando il progetto, in ogni sua componente e dettaglio, al necessario compimento.
Solamente esaurendo il progetto si arriva, senza effetti distruttivi o grotteschi, al momento di un possibile cosciente distacco. La rinuncia finale alla architettura come idea e la sua consegna alla realtà delle cose è forse l'unico atto 'negativo' consentito alla disciplina architettonica; negativo, si intende, rispetto alla individualità dell'architetto, ma assolutamente positivo e costruttivo rispetto all'edificio che riceve, così, una vita autonoma. L'auditorium di Barcellona contraddice, dunque, uno dei valori dominanti la cultura architettonica corrente, ovvero lo sfoggio di una riconoscibilità, l'onore di una lingua personale e distintiva. Di contro, esso ripropone uno dei grandi temi 'sotterranei' dell'architettura del Novecento:
la ricerca di un anonimato architettonico ottenuto, non attraverso la rinuncia al progetto e l'illusione della spontaneità, ma grazie alla rigorosa applicazione di una disciplina progettuale e costruttiva. Un segnale in più di come, alla fine di un secolo in cui l'architettura ha cercato i propri significati e valori per lo più al di fuori di se stessa, sembri ora giunto il momento dell'architettura come architettura, ovvero di una nuova, seria interrogazione sull'atto semplice e poetico del trasformare le cose per favorirci la vita.

Testo di Giovanni Leoni
Estratto da Area n° 47 Novembre/Dicembre 1999, pag 34/49 Federico Motta Editore

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