Carlo Aymonino
Vittorio Longheu, Efisio Pitzalis

Tutto  il materiale realtivo all'esposizione d'Architettura LABORATORIO ITALIA 2005 è presentato all'interno del portale www.floornature.it

Faccio fatica oggi nel continuare a studiare, a trasmettere i risultati degli studi attraverso l'insegnamento, a interessarmi con curiosità delle opere altrui. Voglio saperne di più non genericamente: per completare ed estendere  le "cognizioni del mestiere", per sapere progettare bene parti di città.
Il tempo pieno nell'università ha discriminato la ricerca dalla didattica, impedendo l'assunzione di responsabilità direttive a chi esercita la professione (il caso Samonà nell'Iuav è oggi impensabile);

Carlo Aymonino

si rischia di convalidare  e rendere stabili due figure sempre più differenti di docente: l'architetto che costruisce può comunicare le sue esperienze nella scuola ma non può collegare in modo continuativo, organizzato, la ricerca con il mondo esterno, professionale; l'architetto che non costruisce diviene un testimone, un critico di esperienze altrui, identificandosi con la gestione, anche nei casi intelligenti. Nei trentotto anni di insegnamento a Roma e a Venezia, facilitato forse dal mio cognome, non ho mai inseguito una mia "scuola" e tanto meno dei nipotini (Aymonino è già il diminuitivo di Aymone, figuriamoci gli aymoninini!); forse anche la formazione nella facoltà romana, tutta tesa a recuperare l'insieme della tradizione moderna, e subito dopo l'esperienza progettuale con Ridolfi e Quaroni, pari ma assai diversi fra loro, non interessati a una "scuola" ma a trasmettere idee, conoscenze e dubbi per praticare un mestiere responsabile e sapiente. I "maestri" della scuola romana - ammesso che vi sia stata continuità - come Ridolfi per il continuo arricchimento del mestiere, come Samonà per la testarda cuorisità interdisciplinare, come Quaroni per il suo incessante esplorare e come - perché no? - Muratori per il richiamo ai precedenti disciplinari consolidati hanno in fondo trasmesso a noi, al contrario dei milanesi, un senso del fare architettura che oggi mi sembra drammatico nel ricordo (da qui forse i miei disegni di "progettare è fatica"?) dove le sicurezze "colte" del passato recente e lontano possono essere spazzate via dal problema nuovo o antico che ogni occasione di progetto pone, lasciandoti ogni volta quasi impreparato finché non progetti, non dai forma alla soluzione.
Un senso drammatico che nasce dalla consapevolezza di operare non per l'Architettura, ma nell'architettura della città. Città che, coscienti o no, è sempre Roma. (Un'ironica rivincita postuma degli "accademici"?).
Al termine della mia lezione ad Harvard Giorgio Ciucci mi chiese con ironica curiosità del perché fossero sempre più presenti sculture nei miei progetti recenti; addirittura due, i più privati in quanto privi di committenza, sono risolti dalla scultura: parlo del Colosso e del bacino di San marco; sculture di uno stesso artista, Antonio Canova, riutilizzate in misure e in luoghi assolutamente estranei agli spunti originari. Ancora la statua e la fontana nelle tre piazze di Terni, i reperti "antichi" dei coniugi Poirier nella piazza di Lecce. (per non parlare dei quattro disegni per "Sotto Napoli", basati interamente su combinazioni di sculture differenti). Sì, l'attenzione alla scultura è venuta tardi come "completamento" o come parte integrante della soluzione architettonica, soprattutto se questa è urbana, parte di città; che vuole confrontarsi con la storia per verificare se vi è ancora, e in che misura e con quali differenze, una possibile continuità degli strumenti di progettazione e delle loro combinazioni. E' un modo per accentuare la complessità delle soluzioni urbane, per "aggiungere" altra materia tridimensionale agli spazi pubblici da risolvere. (...) C'è anche la conferma di un mio ideale recondito ma sempre presente nei progetti "maturi" : quello di una soluzione architettonica già preesistente  entro un involucro generale, che prende forma e di dà ragione, "togliendo", scavando in quell'iniziale e teorico volume semplice, fino a rendere evidenti e praticabili i complessi rapporti tra i percorsi, gli elementi componenti, l'interno e l'esterno.
In fondo l'ideale di un'architettura scolpita, senza dettagli o materiali differenti che ha ragione di essere in sé, per il compito che si assume: come gli acquedotti, i resti in cotto dei Mercati Traianei, il colonnato di Piazza San Pietro. Che raggiunge il massimo nelle architettura scolpite di Petra, bellissime nella loro soluzione formale ma soprattutto nella loro sapienza tecnica: le misure generali già valutate e predisposte, la scelta del punto più giusto nella roccia da cui iniziare a scavare dall'alto in basso, l'impossibilità riassorbire o correggere errori. La perfezione; che testimonia della differenza qualitativa di una soluzione artificiale, pur limitata,  rispetto all'infinito, variabile ma non troppo, della natura. Certo, la presenza della storia, che ha significato prima di tutto la riappropriazione della città, soprattutto di quella esistente (e questo è forse un limite, anche se i recenti problemi delle aree ex-produttive da trasformare e valorizzare pongono questioni che possono risolversi con la ricchezza progettuale oggi possibile e praticabile)
Una riappropriazione non più sotto il regno del "nuovo" che cambierà poi il tutto,  ma sotto il regno del "completamento", della costruzione  di luoghi rimasti a lungo incompiuti  per mancanza di idee e di decisioni.
Soluzioni e non più modelli. Tutta la generazione formatasi nell'immediato dopoguerra le pratica con risultati che nell'insieme mi sembrano esemplari. Esemplari per misure, per composizione. La storia come insieme di problemi urbani e architettonici, che dia conto dei processi sovente complessi e contraddittori entro i quali l'opera o il progetto sono venuti a collocarsi; una storia non più "militante" a giustificare questa o quella tendenza in atto, così come hanno insegnato gli studi di Richard Krautheimer e di Manfredo Tafuri. Stiamo faticosamente ma anche coscientemente, quindi felicemente, praticando il passaggio "dall'avanguardia alla guardia" (altrimenti che avan era?). E ciò dà sicurezza, pienezza di immagini, tali da far supporre - e non è detto che ci si riesca sempre - di saper risolvere ogni problema che la società ci pone. E siamo in parecchi. (...) Forse sono ancora da valutare - non per pettegolezzo ma per avere un quadro più completo delle "vicende" - le condizioni  materiali del fare architettura: certo i nuovi materiali, le nuove organizzazioni delle imprese e dei cantieri, le nuove leggi ecc., ma anche le condizioni economiche familiari, quelle raggiunte con matrimoni e eredità, quelle "integrative" di brevetti o di design, quelle fondiarie, ecc. (Notizie tutte che negli studi sul Cinquecento  o sul Seicento sono considerate importanti, nell'epoca moderna e contemporanea scompaiono del tutto).Dei miei maestri credo che il solo Ridolfi si riuscito a vivere e a raggiungere un relativo, molto relativo benessere con la sola professione; il suo trasferimento a Terni può essere dovuto anche a ragioni materiali? (...)
Non solo devi cercare lavoro, non solo devi tentare di farlo bene, ma devi spendere tempo ed energie per fartelo pagare. Forse è stato sempre così: con l'eccezione della biblioteca di Muzio non ho mai saputo di "lasciti" di architetti paragonabili a quelli di notai e  medici, per non parlare di Mattioli; Michelucci è riuscito a istituire una sua "fondazione" solo grazie alla veneranda età.