Case a Fredensborg
JØRN UTZON, CASE A FREDENSBORG

Testo di Giovanni Leoni
 
Il metodo contro la forma; o più precisamente, il metodo come fondamento della forma. Così, in estrema sintesi e semplificazione, si potrebbe definire la battaglia condotta da Utzon nel corso della sua intera vicenda architettonica. Una battaglia che assume carattere di amara ironia se si considera come l'architetto danese abbia inventato una delle più celebri forme architettoniche del Novecento e ne sia rimasto, in molti sensi, vittima. Se è vero, come scrive Françoise Fremont nella sua precisa e documentata ricostruzione dell'intricata vicenda progettuale e costruttiva dell'Opera House (Jørn Utzon architetto della Sydney Opera House, Milano 1998, p. 224), che Utzon abbandona il guscio del progetto iniziale a favore di una soluzione costruttiva basata su moduli prefabbricati e affine al sistema delle volte gotiche in pietra; dunque se è vero che, anche in quel celebre caso, egli si allontana da un procedimento di natura plastica e figurativa a favore di un principio tettonico, allora vale certo la pena di continuare a interrogarsi su altri momenti della sua ricerca, forse meno noti ma significativi in relazione alla messa a punto di un metodo progettuale e costruttivo in grado di dominare la forma piuttosto che farsene dominare. Al di là del dato importante di un carattere non eurocentrico e transculturale della sua architettura, ben evidenziato da Frampton (Studies in tectonic culture, Cambridge Mass. - London 1995, pp. 247-298), ciò che sembra distanziare radicalmente Utzon dalle linee di tendenza dominanti la tradizione del Moderno, è soprattutto la volontà di subordinare la forma a una disciplina del materiale e di basare l'invenzione progettuale su un metodo costruttivo piuttosto che su una prefigurazione formale. Le case di Fredensborg non sono che la tappa di un lungo e coerente percorso le cui ragioni seminali sono già presenti nel progetto di concorso per alloggi popolari a Skaane, in Svezia, del 1953. L'idea di una abitazione progettata come elemento modulare, flessibile tanto nella sua struttura interna quanto nella sua combinazione con altri elementi simili, trova concreta realizzazione tre anni dopo, nelle Case Kingo a Helsingøre. L'intervento, programmaticamente polemico nei confronti delle dinamiche di sviluppo urbano orizzontale in corso nella Danimarca dell'epoca, nasce in uno spirito di sperimentazione e quasi di autocommittenza.
Utzon compie opera di convincimento sulle autorità locali, riesce a ottenere la disponibilità di un terreno e realizza un edificio pilota che, grazie anche ai bassi costi di costruzione, viene poi replicato sessantatre volte, in una libera combinazione a nastro che tiene conto della conformazione naturale del sito. La sperimentazione di Helsingøre viene ripresa e per certi versi perfezionata, quasi senza soluzione di continuità, nell'intervento di Fredensborg.
Qui, il programma appare quasi come un'invenzione letteraria alla maniera di Perec, in perfetta sintonia con la ricerca utzoniana sulla flessibilità: la Dansk Samvirke, organizzazione di appoggio ai cittadini danesi che hanno lungamente soggiornato all'estero, intende offrire ai propri soci un'abitazione che ne agevoli il reinserimento in patria grazie alla formazione di una sorta di comunità.
Utzon si trova dunque a progettare per una comunità di individui la cui unica vera comunanza consiste nella diversità delle loro esperienze di vita, nella abitudine a modelli abitativi differenti e lontani, nella scelta di voler ritrovare una collocazione in patria. Anche in questo caso Utzon collabora alla ricerca del sito e partecipa alla stesura di un programma, sottoposto ai futuri abitanti e da essi accettato. Fatta eccezione per alcuni edifici di uso collettivo, il modulo base che struttura il progetto è un recinto murario quadrato in mattoni, di dimensioni variabili in pianta, e diverso per altezza di segmento in segmento. Su due dei quattro lati sono disposti i vani della abitazione, organizzati secondo quattro tipi principali. I volumi a L che così si determinano hanno una copertura a falda unica in tegole e affacciano ampie vetrate sulla corte lasciata libera all'interno del recinto.
Questa, grazie alla protezione del recinto stesso, è concepita come uno spazio privato al pari delle stanze coperte e Utzon ne disegna quarantasette possibili varianti. Il resto della struttura e le finiture sono in legno, tranne le architravi delle finestre e delle porte affacciate all'esterno del recinto che sono in cemento tinto in nero o in bianco. L'immagine complessiva dell'intervento è caratterizzata anche dallo spicco dei consistenti corpi parallelepipedi delle canne fumarie, coperti, come del resto il recinto, da una breve falda in tegole. Le case di Fredensborg hanno offerto e offrono molte possibili chiavi di lettura: i riferimenti alla architettura tradizionale danese e alle reinterpretazioni di Kay Fisker, tra i maestri di Utzon; gli espliciti richiami alla edilizia cinese; la diretta, ed efficace, polemica verso un modello di sviluppo urbano fondato sul blocco circondato da un'area di pertinenza, cui Utzon oppone modelli extraeuropei e in particolare mediorientali, anche sotto l'influenza degli studi di Roland Rainer sulla Turchia; la conseguente riconsiderazione del concetto di vicinato.
Ma due temi in particolare evidenziano come la ricerca di Utzon si fondi sulla volontà di seguire un metodo piuttosto che inseguire una forma, scelta assai più radicalmente antimoderna del semplice uso di materiali e soluzioni costruttive tradizionali. Innanzi tutto il tema della architettura addizionale, che Utzon teorizza nel suo celebre saggio del 1970 (Additive Arkitektur, "Arkitektur", 1, 1970) e che non cessa mai di sperimentare, declinandolo in funzione delle differenti occasioni, dall'edificio a torre di Elineberg (1954) alla dimensione urbana di Farum (1966), di Odense (1966) o di Gedda (1967) fino al progetto più affine a quello qui presentato, la casa su catalogo Espansiva (1969). Quest'ultima ci consente anche di sottolineare come sia certamente giusto ricordare riferimenti orientali e storici, ma senza trascurare precedenti più immediati come il sistema di prefabbricazione in legno AA progettato da Alvar Aalto nel 1940, al suo ritorno in Finlandia dagli Stati Uniti: una 'architettura addizionale' per molti aspetti affine al principio aggregativo che ritroviamo a Helsingøre e Fredensborg.
Il principio del montaggio di semplici elementi costruttivi, da un lato entra in contrasto, non sanabile, con la dominante idea novecentesca della architettura come unicum, come invenzione formale dotata di una precisa identità e riconoscibilità; dall'altro lato è un richiamo netto alla disciplina tettonica che necessariamente si fonda su procedimenti tecnici ripetibili e spersonalizzati, non su atti creativi individuali. Sarebbe certamente interessante tracciare una genealogia di tale principio nella modernità, a partire dal Crystal Palace, passando inevitabilmente da Mies, spaziando su episodi coevi e affini alla ricerca utzoniana come il padiglione di Max Bill a Ulm del 1956 o la, in Italia davvero trascurata, Sarasota School, fino a una riconsiderazione più complessiva del produttivismo, troppo spesso assimilato alla generica categoria della high tech o dell'estetica ingegneristica.
Il secondo tema, che a Fredensborg troviamo già compiutamente formulato ma che assume una esemplarità architettonica nella chiesa di Bagsvaerd (1973-1976), è quello, anch'esso di matrice orientale e fortemente antimoderno, della autonomia tra spazio esterno e spazio interno: un involucro omogeneo e isotropo racchiude una struttura planimetrica e spaziale estremamente libera.
Il tema, su cui manca forse ancora una adeguata riflessione critica, è stato recentemente ripreso da Rafael Moneo, per un periodo collaboratore di Utzon, che nella composizione esterna dell'auditorio di Barcellona (1988-1998; cfr. Area 37) cita quasi testualmente la chiesa di Bagsvaerd e, in una recente intervista (El Croquis, 64, 1994, pp. 13 sgg.), focalizza questa ricerca sulla 'compattezza': una esplorazione sui sistemi continui capaci di generare una figura o un volume chiusi che offrano estrema libertà di sperimentazione e differenziazione nella organizzazione dello spazio interno.