Franco Purini
Modulo Quattro, Nencini e Menegatti, Gianfranco Neri, Renato Pertenope
Due motti

Tutto  il materiale realtivo all'esposizione d'Architettura LABORATORIO ITALIA 2005 è presentato all'interno del portale www.floornature.it

"Ciò che so fare non devo farlo" è il mio motto, al quale se ne affianca un altro: "Ciò che è fatto è da fare". Il primo mi ricorda che non mi è permesso pensare, neanche a livello subliminale, che l'esperienza accumulata sia sufficiente a fronteggiare i nuovi problemi che volta per volta si presentano. In altre parole non si può mai ripetere ciò che si è gia fatto anche perché, se ci  si fidasse dei risultati ottenuti, si rischierebbe di conferire al proprio lavoro non tanto e non solo il senso di un indesiderato dejà vu, quanto l'ingiustificato e comunque sempre improprio plusvalore derivante dalla conferma di un precedente.

Franco Purini

Il secondo motto, che integra  e al contempo contesta il primo, è una raccomandazione a tener sempre presente che l'insieme della propria opera si eleva davanti al suo autore come qualcosa che esige costantemente un ripensamento, una riscrittura, una rimessa in discussione, un rifacimento. In qualche modo i due motti contrastanti si riunificano nell'avvertenza che in architettura non esiste compimento, ma tutto si presenta in modo ipotetico, tentativo, transitorio anche quando si crede, come io credo, che non possa esistere una vera ricerca se non sostenuta su solide fondamenta teoriche e su convinzioni durevoli. Se è vero infatti che la sintesi tra i vari elementi di un progetto è personale, avvalendosi di corti circuiti imprevedibili, di scarti immaginifici e di inconsuete connessioni, nelle quali ha un grande ruolo il cosiddetto irrazionale, è ancora più vero che tale sintesi si attua a partire da un nucleo di conoscenze oggettive che rappresentano il fondamento essenziale per qualsiasi esercizio compositivo. In una schematizzazione estrema queste conoscenze riguardano in prima istanza la tipologia nei suoi tre noti ambiti, ovvero gli spazi discorsivi relativi alla classificazione-composizione, alla connessione tra le varie parole architettoniche, considerate nella loro ascalarità e per questo invarianti; alle relazioni gravitazionali tra elementi grammaticali, vale a dire i rapporti ponderali che avvicinano e allontanano lungo assi accuratamente predisposti una serie di masse architettoniche. Subito dopo la tipologia è la metrica urbana e architettonica che va indagata come strumento di organizzazione planimetrica e spaziale della città e dei suoi edifici. Infine le tecniche del comporre rappresentano il terzo livello di conoscenze oggettive che devono confluire nell'esercizio della composizione. Senza questa base scientifica, seppure di una scienza del tutto particolare, ogni azione architettonica si rivelerebbe, più che gratuita, del tutto inutile. C'è da chiarire che, nonostante la loro specificità questi saperi, che sono propri solo della composizione architettonica, sono stati negli ultimi anni, di fatto, abbandonati. Aggiungo a quanto detto un'altra condizione che a mio avviso si rende necessaria perché l'architettura possa essere pensata e costruita. Tale condizione consiste nella presenza di un tema. Un tema architettonico come trascrizione disciplinare di un ulteriore tema riguardante, questo, l'esistenza umana. Senza questo centro di gravità, capace di polarizzare  l'impegno compositivo a lungo e in profondità, non si può parlare di ricerca architettonica, tanto più  se questa identifica la sua finalità con la costruzione. In effetti, il fatto che ci sia un tema che strutturi nel tempo il lavoro compositivo è la condizione prima perché si possa conquistare una vera riconoscibilità della scrittura architettonica. Sono numerosi i casi di architetti la cui attività è segnata dalla realizzazione di opere pregevoli; architetti ai quali manca tuttavia un carattere capace di rimanere in un certo senso sempre uguale a se stesso, nonostante le inevitabili e mutevoli circostanze che si attraversano nella vita. Parallelamente esistono altri architetti che hanno costruito poco, i quali possiedono però il dono dello stile come esito della ricerca costante su un tema. Sono convinto che solo le architetture dei secondi abbiano meritato e meritino di essere costruite, perché hanno prodotto e produrranno un cambiamento nella disciplina, a volte decisivo. Far sì che l'architettura sia, dopo un'opera anche piccola, diversa da com'era prima che questa opera esistesse, è un obbiettivo che nell'ambito delle mie possibilità ho sempre cercato di raggiungere. È verso questo risultato che i miei due motti, nella loro intrinseca conflittualità, alla fine convergono.
Maggio 2005