STUDIO BORIS PODRECCA
IL SAPERE DEL COSTRUIRE
Intervista a cura di Michela De Poli


 

Michela De Poli: Vorrei fare con lei un viaggio nella dimensione italiana, raccontando attraverso la lettura di alcuni temi di "pratica quotidiana", il mestiere di architetto, per creare un itinerario critico elaborato con la distanza culturale di chi appartiene a una scala europea consolidata, ma con la prossimità sensoriale di un'assonanza intellettuale che opera con le radici di situazioni stratificate. Quale è il suo atteggiamento come intellettuale e come progettista nei confronti della storia?
Boris Podrecca
: Per me la storia è sempre amica. La storia è un attraversamento dei parametri esistenziali, la storia non è un manuale: ci insegna l'esistenza, la progressione dell'esistenza. E' come Virgilio che conduce Dante attraverso il Purgatorio. Per me la storia è sempre stata uno stimolo per liberare la mente. Da quando sono diventato un po' maturo come architetto, ho avuto bisogno di padri. Per questo ho ristudiato la storia dell'architettura attraverso personaggi come Plecnik, Fabiani... e la vedevo come un'esigenza che mi consentiva di rispecchiarmi in un personaggio, di interpretarne i lavori, leggerne la poetica. Anche se in certi momenti l'architetto deve saper essere anche un po'"barbaro". Ma bisogna fare attenzione, cercare una certa balance tra usare la storia, riusarla, o addirittura abolirla.


 

MDP: Che ruolo ha avuto la storia, nel processo progettuale che ha guidato il restauro del Museo d'Arte Moderna di Cà Pesaro a Venezia? E' stata abolita o recuperata?
BP: Io direi che, anche qui, c'è questa dicotomia. Da un lato il Longhena, uno dei migliori architetti del barocco, con un'architettura molto esuberante; dall'altro un luogo da ricostruire, da rianimare. La mia strategia è stata distanziarmi dal Longhena preferendo una poetica ascetica che mi permettesse innanzitutto di tenere in piedi il manufatto. Sin dall'inizio, da quando ho cominciato a studiarlo, mi sono reso conto che non lo si poteva caricare, che non si poteva fare un museo con tanta gente a metro quadro e quindi ho iniziato a pensare a delle protesi, a una struttura di ferri poi ricoperta e rivestita secondo uno dei temi forti del pensiero viennese: il rivestimento. Attraverso questa tecnica profana, che praticamente si adegua all'oggetto, chiamiamolo sacro, emblematico, come l'oggetto di Longhena... ho permesso al Longhena di rimanere il grande protagonista, il direttore d'orchestra e a Podrecca di essere il coro.


 

MDP. Stavo cercando di capire se analizzando il nostro rapporto con la storia, la memoria storica dei luoghi, si possa in qualche modo rintracciare una responsabilità dello stato attuale dell'architettura in Italia. Ma lei sembra riportare il problema al presente.
BP: Per me in Italia c'è troppa cultura del commento. George Steiner dice: non abbiamo più bisogno di assaporare l'originale, ci basta l'articolo sull'originale, in terza lo commentiamo, e in quarta ci formiamo un'opinione. Io trovo che in Italia ci sia troppa versatilità, troppa loquacità, troppi editori, troppe riviste, troppo commento sull'architettura. Penso che per fare l'architetto bisogna anche, come dire, stare un po' con la musica da camera. L'architetto ha bisogno di una poetica implosiva, deve stare anche solo. Mi ricordo la Biennale intitolata, "La presenza del passato". Paolo Portoghesi la voleva chiamare "post-moderna", ma quando è venuto a Vienna, noi giovani non volevamo sottostare a questa definizione, perché per noi era una americanata, un revival. Paolo ci ha pensato e l'ha chiamata, poi, "La presenza del passato". Allora abbiamo detto: "volentieri partecipiamo". Perché è, come dicevo prima, Virgilio che conduce Dante, la sopravvivenza, i parametri esistenziali della storia; questo sicuramente sì, ci interessa e ci interessava. O c'era troppo post-moderno - la versatilità e il darsi alla storia - oppure, al contrario, c'era l'abbandono della storia, il non vederla, l'odiarla. E' questa presenza degli estremi la particolarità dell'Italia, il non trovare la normalità dell'architettura e abdicare al mestiere di sapere costruire bene.