Marmi e pietre – Scritti, versi e persino Papa Giovanni Paolo II hanno reso omaggio al lavoro dei cavatori

Mezzo secolo fa, un anonimo cavatore di Carrara che fu anche poeta ebbe “qualcosa da dire” sulle condizioni in cui si lavorava nei bacini marmiferi apuani, e molto suggestivamente lo disse in versi, rammentando che il «piazzale ampio e pulito davanti ai nostri tagli » non è fine a se stesso, ma rivolto a prevenire gli incidenti e le perdite di materiale, e sollecitando «gli apprezzatori del nostro marmo» a tenere ben presente che esso « ha preso tanta parte della nostra anima», tanto da poter affermare, a conclusione del suo messaggio, che « siamo creditori di anima davanti al mondo». All'epoca, gli occupati nell'attività estrattiva apuana ammontavano a diverse migliaia di unità, mentre oggi sono scesi a poche centinaia: nonostante i livelli produttivi siano largamente cresciuti, lo sviluppo tecnico e la meccanizzazione delle cave hanno permesso di ridurre drasticamente il numero dei lavoratori.

La cultura dei cavatori
L'umanità e la cultura dei cavatori, che furono oggetto di uno studio di Luciano Casella pubblicato nel 1959, non sono state compromesse dal regresso del mestiere in termini quantitativi, né dalla scomparsa di alcune figure tipiche come quella dei lizzatori. Anzi, in tempi relativamente più recenti i cavatori delle Apuane sono stati oggetto di riconoscimenti davvero straordinari: prima fra tutti, l'udienza che il Santo Padre Giovanni Paolo II volle riservare loro il 15 marzo 1980, non avendo dimenticato che nella fase di preparazione al sacerdozio aveva prestato per un anno la propria opera in una cava polacca, dove il futuro Papa fu testimone della morte di un compagno per fatto accidentale, alla cui memoria avrebbe dedicato un componimento poetico destinato a diventare famoso. Il cavatore di Carrara, poi, ha avuto omaggi artistici come quelli presenti nella pittura di Romolo Bondi, anch'egli ex-operaio e quindi ottimo conoscitore della realtà professionale di cava: nei suoi quadri, come ha ricordato il Pandolfi, c'è una rappresentazione “severa e pensosa” del cavatore, in quella divisa tipica fatta di «pantaloni frusti, camicia di cotone aperta sul collo, cappello o copricapo realizzato con un fazzoletto annodato agli angoli, scarponi di cuoio con lacci mal messi, e giacca sulle spalle per ripararsi la schiena sudata all'ora del pasto». Gli esempi potrebbero continuare ma tutto conferma come il fattore umano eserciti sempre un fascino particolare, che col passare del tempo si è esteso da Carrara a tanti altri bacini lapidei: basti pensare alle grandi cave di granito del Vermont che al pari di quelle apuane sono diventate motivo di attrazione turistica.

La rivalutazione del mestiere
Alla fine, si tratta di un fatto positivo non solo dal punto di vista promozionale ma anche sul piano della rivalutazione psicologica del mestiere nell'immagine collettiva. Tutti sanno che in altri Paesi il lavoro di cava è ben lontano dal fruire dei grandi vantaggi procurati dallo sviluppo tecnico sia sul piano della produttività che su quello delle condizioni professionali. La presenza dei minori in parecchie cave africane o asiatiche non è un'invenzione dei giornalisti occidentali, come si è sentito affermare durante una manifestazione settoriale del 2007, ma una realtà di fatto che non richiede polemiche, bensì il comune impegno per mettere fine a un fenomeno moralmente ingiustificabile e giuridicamente anacronistico. Sta di fatto che, come aveva scritto quel personaggio apuano degli anni cinquanta, i cavatori sono sempre “creditori di anima” e, in quanto tali, hanno diritto ad una considerazione che trascende tempi e luoghi.