post evento – Strutture ospedaliere vetuste versus realtà di nuova concezione, dove l'agibilità dei percorsi è scandita da un'intensità di cura integrata con le attività di ricerca e formazione e attuata attraverso tecnologie avanzate.

Con un parterre che dall'Europa allarga orgogliosamente a casi di eccellenza provenienti da regioni come la Toscana, le testimonianze di un'architettura che guarda al "Progettare e costruire spazi per la salute" parlano, in primis, «di una programmazione regionale unitaria che, fortemente sostenuta da dati oggettivi, ha visto il rapporto esclusivo dell'ospedale con una singola comunità far posto a funzioni di area vasta, dove la riorganizzazione del territorio e dei rapporti tra enti locali guarda a una più corretta pianificazione delle politiche da attuare nell'ambito di una programmazione più ampia».

Lo sostiene Gianni Amunni, Direttore Generale, Istituto per lo Studio e la Prevenzione Oncologica, per bocca del quale il dato osservato narra di una realtà ospedaliera regionale passata, negli ultimi vent'anni, «da una compagine di 93 ospedali (per un totale di 23mila posti letto da contestualizzare, nel 75% dei casi, in edifici antecedenti il 1920), a 41 strutture», «di cui 16 ospedali nuovi, altri 4 in rifacimento e una ristrutturazione che ha coinvolto anche il parco macchine in uso».  Ma se è vero che non si passa da 6,4 a 3,8 posti letto per mille abitanti «senza una profonda revisione delle strutture territoriali», è altrettanto vero che non si può parlare di innovazione nell'edilizia sanitaria «senza l'adozione di un nuovo modello organizzativo rappresentato dall'ospedale per intensità di cura che, con il progressivo superamento del reparto differenziato per disciplina - sempre per Amunni -, rappresenta un'ulteriore occasione per modificare, a livello gestionale, anche gli edifici esistenti».

Ecco che, allora, nel progettare gli ospedali di domani, i suggerimenti passano dal "cambiare la cultura dei professionisti", al porre "la rete dei servizi come modello alternativo all'istituto" per intercettare la domanda realizzando, anche a livello simbolico, "un'omogeneità strutturale degli accessi al sistema". Il tutto per spazi della salute che cambiano anche in termini di nuovi metodi di diagnosi e cura e dei quali il Direttore Generale della Fondazione Cerba, Maurizio Mauri, sottolinea la stringente necessità dettata da un panorama sociale costituito «da persone sempre più anziane e da malati cronici intenzionati a convivere al meglio con la propria patologia».

Quella in atto è, di fatto, una "nuova era della medicina" dove le predisposizioni genetiche diventano prevedibili, «tanto che nei prossimi 10 anni cambierà oltre l'80% delle conoscenze in termini di diagnosi, terapia e prevenzione» alle quali devono, però, corrispondere «altrettanto nuove risposte, organizzazioni, luoghi di cura e modi di lavorare». Come "medico prestato alla progettazione delle strutture ospedaliere" quella messa in luce da Mauri è l'evoluzione verso un paradigma di "salute preventiva" all'interno del quale, delle nuove tecnologie applicate agli strumenti in uso, beneficiano anche le metodiche di ricerca e analisi di laboratorio e la farmacologia di ultima generazione attraverso cui sono realizzabili terapie personalizzate per un'efficacia del farmaco che diventa prevedibile.

«Protagonista attivo e non più passivo, il malato, è oggi al centro di strutture che, da coacervo frammentato ospedalocentrico evolvono in sistemi a rete cittadinocentrici in cui i servizi - precisa Mauri - vanno riprogettati in base ad accoglienza e ospitalità, funzionalità ed efficienza, architettura sostenibile e rispetto ambientale». Nuovi luoghi per nuove cure che, per Stefano Capolongo, Responsabile scientifico Dipartimento BEST del Cluster "Progettazione delle strutture sanitarie. Architettura, Edilizia, Urbanistica, Territorio" del Politecnico di Milano, andrebbero «non solo interpretati dal punto di vista organizzativo, ma anche progettuale, e recepiti correttamente da chi, poi, questi stessi spazi li andrà a occupare per evitare la nascita di ospedali già vecchi, come il Manzoni di Lecco realizzato nel 2000 secondo logiche progettuali del tutto desuete».

Al suo opposto esempi virtuosi come il Consorzio Città della salute e della ricerca del quale, come direttore progetto presso la Fondazione Irccs Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, Alessandro Caviglia, evidenzia «la presa in carico non solo del paziente ma del suo sistema affettivo e relazionale grazie a residenze e percorsi di cura personalizzati realizzati all'interno di un modello di sviluppo urbano dedicato alla salute che coniuga il momento di malattia del cittadino senza estrometterlo dal contesto metropolitano». Un non so ché di equo che alla medicina predittiva, preventiva e personalizzata aggiunge una medicina partecipativa «dove al paziente è riconosciuto il diritto di decidere della propria cura».

Spesso, però, le strutture ospedaliere ridisegnano il territorio «e in tal senso - per Caviglia - l'attenzione alla progettazione deve riguardare anche una localizzazione corretta per un'altrettanto corretta accessibilità ai luoghi deputati alla salute». Senza dimenticarsi che, come l'Azienda Ospedaliero-Universitatia di Bologna Policlinico S. Orsola - Malpighi insegna, esistono realtà «indissolubilmente concatenate nel tessuto urbano e in cui occorre investire per conciliare la tecnologia con una dimensione umana che impone alle regioni e agli enti territoriali di fare sistema». A ricordarlo è Daniela Pedrini, Responsabile Coordinamento Attività Tecniche Integrate Direzione Progettazione, Sviluppo e Investimenti della realtà bolognese «che, lunga 1,8 chilometri e larga 300 metri, con i suoi 30 padiglioni, un polo cardio-toraco-vascolare in costruzione, 1.750 posti letto, oltre 5 mila dipendenti e quasi 20 mila presenze quotidiane in pieno centro storico, in termini energetici produce 17 mila tonnellate equivalenti di petrolio annue consumate e 35 mila tonnellate di anidride carbonica immessi in atmosfera, per un potenziale di risparmio enorme».

Intanto, presso l'Ente Ospedaliero Ospedali Galliera di Genova (data di nascita 1888), quella in atto da tempo è la realizzazione di un modello di ospedale che, organizzato su tre livelli di assistenza, prevede la scomparsa dei reparti. «All'interno del primo - spiega il suo direttore generale, Adriano Lagostena - sarà posizionata l'alta intensità di cura, nel secondo le attività pulsanti dell'ospedale e nel terzo quelle di stabilizzazione e riabilitazione del paziente». In questo caso, l'innovazione attesa non è solo tecnologica «ma anche del professionista medico al quale è richiesto di ultra-specializzarsi per rispondere alle esigenze di pazienti sempre più anziani e con una comorbilità superiore al valore della patologia per la quale vengono ricoverati».
Anche questa è sostenibilità.

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