Rivestimento: mascherare o svelare

In questa sezione presentiamo una sintesi degli interventi di Werner Oechslin, Augusto Romano Burelli, Max Dudler, Meinhard von Gerkan, Boris Podrecca e Tobia Scarpa alla tavola rotonda "Rivestimento: Mascherare o Svelare Ideologia e tecnica del rivestimento lapideo" svoltasi a Verona il 19 settembre 1999.

Werner Oechslin
Sapete, in una fiera si vedono blocchi e tagli di pietra bellissimi, ma poi ad ogni tentativo di trarne una forma si arriva subito al kitsch. Questa è la realtà delle fiere, e noi siamo dei "superstiti" in un mondo che non si interessa più tanto di problemi come quelli del nostro dibattito. Come introdurre il problema? Io sono molto attento alle parole e ieri, fra chi ha ricevuto il premio, era intuibile una ricca gamma di posizioni. Pavan ha evidenziato una possibile opposizione fra un uso "arcaico" della pietra ed uno più "sofisticato" e non ha distinto fra materia e forma, ma fra materia e pensiero. Credo l'abbia detto inconsciamente, ma pensateci un po': tutta la tradizione culturale europea ha voluto mettere insieme forma e capacità mentali: la forma sarebbe quello che l'essere umano, in quanto intelligente, può fare intervenendo sulle cose. Ecco, è ancora presente in noi l'"ilemorfismo" (hyle, "materia", morphé, "forma"), che ha occupato i filosofi da quando esistono, dai Presocratici. È un punto importantissimo, ma potete capire che qui si apre tutto un campo di possibili interpretazioni. Presentando l'edificio di Moneo a Murcia si è parlato di facciata-retablo. Chi conosce la cultura delle cattedrali spagnole sa che il retablo non è una superficie, ma qualcosa di "volumetrico", come i francesi quando parlano dei "portails" delle loro cattedrali, architetture in profondità, come quasi sempre le facciate storiche. Max Dudler ha messo invece l'accento su un altro punto: senza facciata non abbiamo città. Senza limite fisico tra spazio privato interno ed esterno, non potremo mai delimitare concretamente lo spazio pubblico, e allora inventeremo gli orrori che vediamo oggi in tutte le città, anche italiane. Ultimo esempio: ieri Tobia Scarpa ha usato la parola "morale": come mai l'etica ha a che fare con l'architettura? E, in che senso? Nel senso: "Nessuna cosa deve mettersi in rappresentazione che non sia anche veramente in funzione"? (è il Lodoli, per i Razionalisti italiani vangelo dell'etica moderna), cioè l'interno deve essere esattamente rappresentato all'esterno? Questo è il contrario del rivestimento. Vorrei allora provare a riordinare un po' di concetti. Un primo gruppo è, come accennavo, la dicotomia materia/forma alla base di tutta la nostra cultura. Ma ci sono tanti sinonimi e ci mettono in difficoltà. I tedeschi per "materia" non dicono solo "Materie", dicono anche "Stoff" e "Materialität", termini diversi, con gradi di astrattezza diversi. Naturalmente è semplicistico dire che Materie è la cosa bruta, mentre la forma è pura intelligenza: come insegna Aristotele, ciò che conta è l'intreccio. Il lavoro del falegname o dell'architetto non è creare forme, ma trasformare la materia in una cosa formata. Ecco la vera dicotomia filosofica Materie/Form. E ancora: cos'è l'"architettura"? Un tempo si diceva "architettura è spazio". Ma gli architetti lavorano con la materia, non con l'aria! I filosofi tedeschi dell'Ottocento dicevano: l'architettura è Schwere, quello che pesa, cioè prima di tutto qualcosa di materialmente presente, tutt'altra cosa da certe grandi bugie "moderne", come, la famosa Piramide del Louvre (che non è veramente trasparente perché comunque sia è un corpo). Se andate a leggere l'Alberti, ritrovate forma e materia, espressi in modo molto più raffinato: "penetrare col pensiero" e "muovere pesi". Noi oggi l'abbiamo un po' perduto, ma l'idea è organizzarsi a trasportare pesi per poi metterli nel luogo giusto. Un certo Passeri definiva l'architettura di Borromini attraverso il concetto di intelligenza. Ma qual è l'intelligenza dell'architetto? Penetrare il problema e poi dare una soluzione ottimale. Emanuele Tesauro, grande teorico di retorica seicentesco, parte importante della nostra cultura, definisce l'"acutezza" quella dell'ingegnere, cioè il lavoro forse più simile a quell'idea di "portar pesi e aggiustarli secondo il pensiero". Ecco, questo è il primo gruppo di concetti, materia/forma. Ma quello di cui molto spesso non ci rendiamo conto, è che la percezione di queste cose è tutt'altro. Noi siamo esseri limitati, abbiamo un pensiero che dipende fortemente dai sensi. Attraverso i nostri occhi percepiamo la realtà corporea, ma cos'è quello che vediamo? Il corpo? Lo spazio? Una sezione di piramide visiva? Vi dico subito che prima del Moderno, tutto questo era ben noto, sin da Aristotele, si chiamava "psicologia" e cioè appunto il problema della percezione, dell'anima ... Spesso confondiamo quello che percepiamo con "quello che una cosa è", ma ognuno di voi si offenderebbe se io lo riducessi a quello che percepisco di lui! Certi teorici modernisti come Heinrich Wölfflin, hanno confuso Eindruck e Ausdruck, "impressione" ed "espressione". L'ideologia del Moderno, "monoteista", che identificava espressione e impressione, non ha voluto entrare in queste questioni, molto difficili. Ma se Eindruck è quello che riceviamo e Ausdruck è parte dell'oggetto, come potrebbero coincidere? E poi: fino a dove vedono i nostri occhi? Solo in superficie o sanno "penetrare", per esempio, una facciata? Ma c'è un'altra cosa ancora. Sappiamo che i nostri occhi funzionano in un certo modo, ma il vedere (das Sehen) non è solo un fatto di fisiologia. Noi "anticipiamo" le cose che vediamo attraverso l'esperienza che ne abbiamo, per aver già visto cose analoghe. La profondità e la superficie non sono dunque separate dalla visione, visto che i fisiologi moderni sanno benissimo che il processo del vedere è cognitivo, cioè un segnale fisico trasformato in qualcosa di più complesso. Quando io attraverso Verona ho già visto molte altre città e facciate, e quindi so già quel che c'è da vedere e magari conosco anche il contesto storico, che mi istruisce sul come io dovrei vedere. Come vedete, sono questioni molto complesse e quindi se ci limitiamo a pensare di sostituire una facciata liscia con una a rilievo, rimane una discussione formalista. Invece, come dicevo, è tutto un altro discorso, che ha a che fare con materia/forma, con la percezione del mondo fisico, la cultura, per esempio, la città. Abbiamo qui amici, come Podrecca, che sono stati dei veri pionieri nella riscoperta di un grande teorico: Semper, ripudiato dai Moderni come Behrens, perché Riegl - non avendola capita - ha definito "meccanica" la sua teoria. Semper è quello che ha inventato una parola poi negativamente famosa, die Verkleidung, tradotta come "rivestimento". In realtà (la faccio molto breve) lui aveva detto "io parlo del principio del rivestimento", quindi la teoria, come gli architetti abbiano da sempre dovuto integrare il problema della superficie. Anche qui direi che se noi avessimo tenuto conto del sapere accumulato storicamente non saremmo mai caduti nella trappola. Infatti: "Come in ogni cosa, soprattutto in architettura ci sono questi due elementi" e cioè "quod significatur et quod significat", "quello che viene significato e quello che significa", questo gli architetti lo sapevano sin da Vitruvio. È l'origine della semiotica, la riscoperta del rapporto fra la cosa e il suo significato (funzioni entrambe dell'oggetto). Come ho già detto, una semplice separazione forma/materia non è possibile. E prima di Semper c'era stato Bötticher. Allora, che cos'è la tettonica di Bötticher? Naturalmente non è la riduzione dell'architettura a puri fatti costruttivi, come la semplificazione che ne ha fatto il Moderno. Per Bötticher la tettonica è, come dicevo all'inizio, l'intervento sul materiale per farne qualcosa; un qualcosa che lui definisce "penetrarlo eticamente", quindi non un fatto formale, né tecnico, ma culturale, etico. Conoscete le tappezzerie mostrate da Le Corbusier nei suoi libri: è la famosa metafora del "vestito", da Loos a Borromini. Il senso è: sono cose orrende, bisogna essere moderni ed eliminare tutte tutto quello che è superficie, rivestimento. Il Moderno alla fine ha trovato forme pure, Form ohne Ornament, riducendo "rivestimento" a Ornament e "forma" ad una cosa astratta. Ma facendo tabula rasa di tutto, distruggendo il passato (come i futuristi italiani), rimane ben poco alla fine, no? Molti hanno ricominciato da zero, De Stijl è tornato alla geometria euclidea, mentre prima tutto era integrato in qualche forma complessa. Dall'altra parte c'è Gropius, la volumetria come concetto (un altro termine da discutere sarebbe Körper). E sappiamo che anche per Le Corbusier la "volumetria" sostituisce tutta la corporeità difficile, ricca, del passato. E in "Punto linea superficie", la corporeità è scultorea, quindi non esiste più la "facciata". Il risultato è la casa a Utrecht di Rietveld, uno shock: alla fine di un fronte continuo di edifici c'è un giocattolo in miniatura, non un fatto di architettura, ma linee e piani astratti. E qui appunto vorrei sottolineare che c'è tutta un'altra tradizione di modernità, messa in subordine (anche se non è mai sparita), che ha continuato a credere nella tradizione architettonica e ha continuato a lavorarci sopra. Faccio solo due cenni. Uno è quel famoso libro "Um 1800" di Paul Mebes, il tentativo di recuperare il fondamento dell'architettura risalendo a Schinkel, alla vera architettura, semplice, corporea. Molto tempo prima di Rudofsky si è scoperta poi una certa architettura anonima, senza grandi architetti, pensando di recuperare così anche la ricchezza dei tessuti urbani storici. C'è Mebes, ma anche in Italia avete una tradizione poco studiata d'architettura minore, testi pubblicati negli anni Trenta, con la stessa operazione: ritrovare nella storia l'edilizia normale, facciate intonacate, senza grandi decorazioni, un'astrattezza quasi "moderna", senza i capitelli e le scanalature che il Moderno condannava, però con superfici a rilievo, forme geometriche varie e risultati di alta complessità. Altra cosa: non è vero che il Moderno abbia avuto il monopolio della geometria, c'è sempre stato anche un lavoro sulla geometria delle forme complesse: anche in alcune illustrazioni dei libri che Le Corbusier utilizzava alla sua scuola vedete rilievi, tagli di forme sensibili, geometria senza riduzionismo. E pensate ancora a Borromini: alcune facciate meno conosciute mostrano l'adattamento allo spazio urbano con pochi mezzi architettonici, ma molto sofisticati. Adesso una provocazione: se l'architetto conosce le sue possibilità di lavorare sulla facciata, e non soltanto in superficie, questo è anche un fatto etico, esprimere nella situazione concreta quello che si crede di dover esprimere, cioè in termini vitruviani, il decorum. Ieri Dudler mostrava la sua facciata che rispecchiava il Duomo "reagendo" al contesto. Se la facciata è un materiale su cui posso lavorare, quello che la città, il contesto richiedono, è un problema da risolvere. Percorrendo i bei centri storici italiani, troverete un ricchissimo repertorio di definizioni dell'architettura in funzione di - della società, del luogo, della posizione, funzione, e non solo uno di questi fattori, come dicevano i modernisti, ma tutte queste funzioni culturali devono essere espresse nelle facciate. Il decorum, una facciata posteriore, una facciata in piazza, una chiesa, un palazzo, questo secondo me è quello che gli architetti devono risolvere, operando con i materiali e sui materiali, per dare risposte. Le facciate separano il privato dal pubblico, ed è qui che l'architetto ha la massima competenza. Ricordo quando Philip Johnson ha fatto il primo billboard a New York: tutti hanno detto "gli architetti perderanno la loro funzione,  faranno soltanto facciate!". Cosa non grave, se si capisce la complessità del problema della facciata, se l'architetto vi riconosce una delle sue maggiori responsabilità. La facciata non è "decoro", in senso negativo, ma una delle funzioni essenziali che l'architetto può ancora rivendicare. E adesso entreremo, spero, un po' in discussione. Chi vuole cominciare?

Augusto Romano Burelli
Sin dai primi esperimenti del Movimento per l'architettura moderna - un'architettura che si voleva nuda e priva d'ornamento, perché basata sui due nuovi e rivoluzionari materiali: l'acciaio ed il cemento - si scoprì che essi deperivano rapidamente. Lo si capì subito, ma si evitò di parlarne, perché il codice delle proibizioni già allora lo vietava. La necessità di proteggere le strutture in ferro o cemento spinse gli architetti a rivestirli in silenzio. Il rivestimento però poneva il problema di definire la veste; e la veste è per sua natura null'altro è se non decorazione. Molto di ciò che è accaduto all'architettura nell'ultimo secolo, e che ne ha influenzato il destino, ha origine dall'ambiguità di questa pelle protettiva ed a ciò che accade dietro questa pelle protettiva. Si può inoltre avanzare la tesi che gran parte dell'architettura contemporanea è un'architettura di epidermidi. Lo stesso dibattito che la circonda è epidermico, superficiale, privo di spessore teorico, perché gli architetti non vogliono sentirsi dire che si occupano solo della pelle dell'edificio, rinunciando spesso ad occuparsi dello spazio che dovrebbe essere il loro principale interesse. L'architetto è costretto a lavorare su spessori murari minimi ed a conservare all'interno dell'edificio un clima costante per sei/sette mesi l'anno. Queste due costrizioni lo obbligano a ridurre in strati la facciata, impiegando materiali diversi, ridotti in sottilissimi fogli. Alcuni sono incoerenti e dalla dubbia durata: soprattutto quelli che hanno il compito di bloccare il freddo esterno di -15° ed assicurare il tepore interno di +25°. Lo strato esterno, di solito in pietra o in vetro, è la pelle che si vede e che deve dare la sensazione di solidità e durata; pur essendo staccata dagli altri e appesa nel vuoto ad una distanza di 15 cm dall'ossatura portante. La pietra dei monumenti, condannata in Germania con i monumenti stessi, viene così ridotta a fogli sottili, in modo antimonumentale, sospesi a ganci di acciaio inossidabile. Privo di massa e di energia statica il linguaggio della pietra subisce un trauma: un tempo viveva nell'ambivalenza del "rivestire per mascherare" o "rivestire per chiarire" la struttura dell'edificio. Ora può solo assolvere alla prima funzione, in quanto si è ridotto a pura maschera. La facciata costruita in pietra appesa non illude infatti più l'osservatore di reggere l'edificio: essa sembra priva di gravità, essa predilige la composizione bidimensionale, eliminando tutti gli spessori chiaroscurali delle aperture. Per capire se la pietra tagliata a spessore consistente, può rientrare in giuoco nel rivestimento degli edifici, dobbiamo capire che cosa accadrà nel mondo dei materiali dell'edilizia, ed in quelli di rivestimento in particolare. I fisici-tecnici infatti pretendono da essi nuove prestazioni, nel tentativo di costruire una facciata che isoli e contemporaneamente duri senza alcuna manutenzione. Le parti sorrette dalla struttura nascosta dietro la facciata esercitano, come mai nel passato, una grande attrazione sugli architetti; esse sono il vero luogo dove rifugiarsi, mentre gli investitori progettano lo "spazio dietro la facciata" rendendolo economicamente sfruttabile sino all'ultimo millimetro quadro. Tra gli strati in cui si è scomposta la parete, a quello esterno è infatti affidata la funzione estetica. È su questo strato che dobbiamo ragionare: esso deve essere contemporaneamente leggero, resistente alla chimica disciolta nell'atmosfera, deve dilatarsi senza spezzarsi, deve suscitare bellezza ed attrazione senza manutenzione, e solo dopo aver assolto a queste funzioni può essere adottato, anche se è costoso. Ma sulle facciate non é solo l'architetto a decidere. Le ragioni sono molte: quelle dei fisici-tecnici prima di tutto, quelle della leggerezza e del formato delle lastre maneggiabili dai montatori, quella dello spessore minimo consentito nelle lastre, quello della sicurezza delle protesi metalliche che sospendono le lastre nel vuoto. Il grande impulso all'impiego della pietra, ridotta in lastre nelle facciate degli edifici multipiano delle grandi città, si spiega solo con la ricerca della parete più robusta e più sottile possibile, dietro alla quale i fisici-tecnici possono elaborare nuove strategie dell'isolamento termo-acustico perfetto. Tra tutti i tipi di pietra disponibili, le lastre in granito tagliato sottilissimo hanno prevalso, perché a parità di resistenza meccanica possono far guadagnare allo spessore della parete alcuni preziosi centimetri, mentre si stanno già montando le prime lastre in marmi più teneri, incollati su pannelli in alluminio confezionati a "nido d'ape". Telai in cemento armato o in ferro per le strutture dell'edificio, telai secondari per le facciate e le pareti interne e telai più piccoli e sottili per reggere e mettere a filo ed a piombo le lastre di marmo appese: questa è la tecnologia più adatta alla riduzione dello spessore delle lastre in pietra per rivestimento.
Il ritorno dei materiali storici dell'architettura come la pietra, il cotto ed il vetro, impiegati per rivestire le nudità deperibili dell'acciaio e del cemento, invece di testimoniare ancora una volta della circolarità e non della linearità delle vicende dell'architettura, devono, per essere accettati dagli architetti e dagli investitori, testimoniare il "nuovo", il "mai visto prima". Il "nuovo" fa parte dell'idiosincrasia degli architetti per il "già visto". Solo il "mai visto prima" li attrae, e li spinge sempre più ad americanizzarsi. Il "nuovo", però, è anelito del nuovo, non il nuovo stesso, diceva un filosofo, perché l'arte è attratta da ciò che non è ancora stato, ma tutto ciò che essa veramente è, è già stato.

Max Dudler
Ad ogni mia visita in Italia si rinnova in me l'ammirazione per la meravigliosa architettura in pietra di Verona. L'autenticità di questo luogo è determinata interamente dalla sua massa in pietra. Questa impressione è ovviamente dovuta principalmente alla perfetta conservazione del centro storico cittadino. Ed è un'impressione che ci pervade in modo ancor più persistente proprio perché oggi esistono ormai ben pochi luoghi che trasmettono tanta autenticità. Ai nostri giorni il lavoro dell'architetto si definisce piuttosto attraverso il contrasto. Veniamo esortati a porci in contrapposizione ai luoghi che devono essere riprogettati.
Luoghi che sono composti di uno spazio esterno, del volume e delle loro componenti materiali. A mio avviso è innegabile che questi tre aspetti costituiscano un unicum. E solo attraverso la loro interconnessione essi formano un'unità di grande effetto. Oggi nel riqualificare un luogo, si tende spesso a trasformare quello che una volta era in pietra con il vetro o la lamiera ondulata. Dato che però il luogo da ripensare si presenta essenzialmente anche attraverso le proprie caratteristiche materiali, è indispensabile che queste siano scrupolosamente armonizzate con l'ambiente circostante. Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è rappresentato dalla valutazione del cosiddetto spazio pubblico.
Lo spazio pubblico è definito attraverso l'interazione con l'uomo che lo utilizza. Proprio tenendo in considerazione questi criteri abbiamo costruito molte piazze e case in pietra. In Germania, dove da anni realizzo gran parte dei miei progetti, questo modo di operare è stato più volte motivo di discussione. Per i tedeschi la pietra, apparentemente, implica ancora qualcosa d'equivoco. Seppure superficialmente, questa accusa viene formulata nel pensiero degli oratori quando parlano di "architettura fascista". Ciò ci permette di capire meglio il motivo dei diverbi sulla Berlino di pietra. Prima di tutto, però, a me interessa il lavoro dell'architetto che deve occuparsi del tema di come far rinascere una città che è stata distrutta per i due terzi. Quanto questo sia importante per una città come Berlino diventa evidente se si considera quanto segue; proprio lì dove sono state riedificate le facciate di pietra, si vede la Berlino autentica, dove sono rispettati i criteri di uno "spazio cittadino".
Ad ogni mia visita in Italia si rinnova in me l'ammirazione per la meravigliosa architettura in pietra di Verona. L'autenticità di questo luogo è determinata interamente dalla sua massa in pietra. Questa impressione è ovviamente dovuta principalmente alla perfetta conservazione del centro storico cittadino. Ed è un'impressione che ci pervade in modo ancor più persistente proprio perché oggi esistono ormai ben pochi luoghi che trasmettono tanta autenticità. Ai nostri giorni il lavoro dell'architetto si definisce piuttosto attraverso il contrasto. Veniamo esortati a porci in contrapposizione ai luoghi che devono essere riprogettati.
Luoghi che sono composti di uno spazio esterno, del volume e delle loro componenti materiali. A mio avviso è innegabile che questi tre aspetti costituiscano un unicum. E solo attraverso la loro interconnessione essi formano un'unità di grande effetto. Oggi nel riqualificare un luogo, si tende spesso a trasformare quello che una volta era in pietra con il vetro o la lamiera ondulata. Dato che però il luogo da ripensare si presenta essenzialmente anche attraverso le proprie caratteristiche materiali, è indispensabile che queste siano scrupolosamente armonizzate con l'ambiente circostante. Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è rappresentato dalla valutazione del cosiddetto spazio pubblico.
Lo spazio pubblico è definito attraverso l'interazione con l'uomo che lo utilizza. Proprio tenendo in considerazione questi criteri abbiamo costruito molte piazze e case in pietra. In Germania, dove da anni realizzo gran parte dei miei progetti, questo modo di operare è stato più volte motivo di discussione. Per i tedeschi la pietra, apparentemente, implica ancora qualcosa d'equivoco. Seppure superficialmente, questa accusa viene formulata nel pensiero degli oratori quando parlano di "architettura fascista". Ciò ci permette di capire meglio il motivo dei diverbi sulla Berlino di pietra. Prima di tutto, però, a me interessa il lavoro dell'architetto che deve occuparsi del tema di come far rinascere una città che è stata distrutta per i due terzi. Quanto questo sia importante per una città come Berlino diventa evidente se si considera quanto segue; proprio lì dove sono state riedificate le facciate di pietra, si vede la Berlino autentica, dove sono rispettati i criteri di uno "spazio cittadino".
Per concludere vorrei brevemente occuparmi del vero problema della pietra o della lavorazione della pietra: la questione centrale in questo contesto verte sull'utilità dell'impiego della pietra. E si tratta essenzialmente del concetto del volume della pietra. In questo ambito mi piace molto l'idea della pietra squadrata. Essa conferisce all'edificio, legato a un determinato spazio, un'identità che dura nel tempo. A titolo d'esempio a questo punto va citato il lavoro dell'artista Rückriem. Attraverso un esemplare rapporto col volume riesce a creare l'impressione di un corpo levigato.
La sua creazione artistica si realizza in due fasi. Inizialmente utilizza, svuotandolo, l'intero volume di una pietra. In un secondo tempo imprime alle sue costruzioni una profondità marcata, nel tentativo di riflettere ciò che sta di fronte, ossia lo spazio della piazza, mediante l'importanza delle pietre. Così nasce un vero ritratto di edificio e città. Questi sono modi di vedere l'architettura nello spazio cittadino, vale a dire nello spazio pubblico, che si giustificano da soli. La vita urbana, il carattere di una società, inseriti nelle piazze e nelle case, che possono essere lette come manifesti di una verità della città non del tutto dimenticata, questo è il mio obiettivo nell'architettura.

Meinhard von Gerkan
In considerazione della complessità dell'argomento, vorrei evidenziare solo l'aspetto che attiene alla mia attività ed esperienza, e che risulta collegato con la materia, la forma, la morale e con l'etica. Io sono nato a Riga, ma la mia patria è al Nord della Germania, ad Amburgo. È noto che la tradizione edile di quella regione è la costruzione in mattoni.
Da studente ho appreso che il mattone è un materiale portante. Da architetto invece ho dovuto imparare che non è più possibile utilizzare il mattone per i muri, poiché le esigenze tecniche e le condizioni economiche sono cambiate. Questo mi ha indotto a capire che la questione dell'etica architettonica e quindi della credibilità dell'uso del materiale diventa relativa, in quanto l'architettura come arte nel sociale deve reagire a condizioni che mutano continuamente. Il mattone è stato creato originariamente per portare carichi, ma anche per assumere funzioni termiche. Oggi tutto ciò si può produrre con mezzi molto più economici e semplici. Il mattone come materiale ha quindi perso la sua caratteristica primaria di costruire case in maniera solida e durevole. Tuttavia lo troviamo in quantità cospicua al Nord della Germania. Viene infatti qui utilizzato ed adoperato ugualmente come materiale appeso davanti che genera la pelle esterna, l'apparenza e la percezione della casa in modo differente quindi dall'originaria funzione costruttiva.
Esiste però una differenza importante tra la lavorazione del mattone e quella della pietra naturale. Nel caso del mattone non si pone la domanda dell'esecuzione dell'angolo e delle fughe con o senza malta, perché viene tutt'ora posato in maniera tradizionale, facendo girare l'angolo. Nel caso della pietra naturale invece, è proprio in questo momento in cui si decide se chiudere o meno le connessure e quindi fare in modo che la pietra si mostri non come materiale di costruzione portante, ma puramente di rivestimento.
Per quanto riguarda la credibilità dell'uso del materiale, trovo oggi quanto prima problemi, nel caso in cui la tipologia di una casa - per esempio nello sviluppo di un progetto per un concorso - non viene generata in primo luogo attraverso la analisi del materiale. Spesso si pensa prima ai volumi, al contesto ambientale, alla funzione, all'illuminazione, ecc., e soltanto dopo si affronta la problematica del materiale. Se poi una casa si sviluppa come costruzione non così ancorata a terra, ma sembra quasi sospesa, mi risulta difficile rivestirla con la pietra pesante. A questo punto si pone indubbiamente la domanda della propria credibilità, della morale.
Per questo motivo abbiamo usato nell'esposizione l'ardesia, un materiale che non è mai stato adoperato come tipologia costruttiva, ma sempre esclusivamente come rivestimento. In Germania esistono diverse regioni, nelle quali le case vengono rivestite con l'ardesia. Il fatto di assumere quasi la funzione dell'involucro esterno, che sviluppa l'apparenza della facciata e quindi elimina l'interrogativo problematico, se modificare con questo materiale anche la tettonica della casa e la sua caratteristica portante.
Risiede quindi nel nostro senso di responsabilità per quanto attiene ciò che creiamo nel nostro ambiente, di porci sempre la domanda della credibilità e quindi della morale e dell'etica.

Boris Podrecca
Dunque, direi: esistono delle regole, anche per la pietra, che sono i diversi condizionamenti d'uso, termici, economici, di linguaggio. Esiste poi la "trasgressione", o meglio la trasgressione intelligente. Come architetto, alla fine, che possibilità concrete ho con la pietra? Esiste una prima possibilità, quello che Dworak chiamava il 'grottesco', cioè la pietra così come la trovo, brutale, non raffinata. Esiste il monolite della grande cultura egizia, l'arcaico, il peso, eccetera. Esiste il rivestimento monolitico, di sei - otto centimetri, come le mura di Dubrovnik, la malta, i ciottoli, e poi la facciata che dà la regola geometrica. Ed esiste infine il "rivestimento puro", quello di tre o quattro centimetri, la pelle wagneriana, con il bullone che non regge veramente la pietra ma è un fatto puramente didascalico, per dire: "guardate che c'è l'alleggerimento, la metafora tessile, Semper". Insomma, come architetti abbiamo quattro possibilità, non di più; poi si tratta di trovare le regole specifiche del topos e typus o la loro trasgressione intelligente, e lì nascono le cose più interessanti. Parliamo di esempi concreti, guardiamo Celsing, l'architetto svedese, e la sua pietra a spacco nera, a Stoccolma. C'è ambivalenza: si usa il sistema monolitico ma poi si sfonda un angolo, gli si toglie il peso; in questa dialettica, si genera la trasgressione. L'architetto sa le regole e le fa vedere, e così riesce a dare una qualità particolare alla sua opera. O parliamo di Plecnik, della sua bellissima biblioteca a Lubjana, l'osmosi di mattone e pietra a spacco per dire "la cultura della mia città sta fra nord e sud", cioè di nuovo l'espediente educativo. C'è una terribile, tragica direi, trasgressione delle regole, ma sicuramente intelligente, e una forte coerenza fra antitesi, pelle e monolite. Non sarà così (questo poi ci porterà al problema del linguaggio) per la sua casa Zacherl, che più di Wagner rappresenta quella che Semper ha definito come "origine tessile dell'architettura". E a proposito di linguaggio: molti architetti romani, che per anni hanno fatto un'architettura molto storicistica, con timpani e pietra, da quando Rossi è morto e l'editoria italiana ha cominciato a pubblicare i Decostruttivisti, hanno cambiato radicalmente: questo è possibile solo dove si lavora con la maschera, con il segno, e non c'è coerenza con la materialità, né, forse, con la trasgressione veramente intelligente. Scarpa non conosceva Semper, ma per instinto, anche lui ha lavorato su questi temi europei, sull'origine della materialità, non sul disegno. Penso che dovremmo accantonare il "razzismo" degli stilemi, e pensare un po' più alla coerenza con le regole, dove la trasgressione intelligente diventa un'altra regola. Così hanno fatto Salvisberg, Asplund, i grandi maestri. È vero anche che ognuno di noi, a seconda dell'ambiente culturale, ha proprie regole. A nord la spiritualità gotica, una materialità molto ariosa che tende alla verticalità (da cui oggi la "tecno-spiritualità" dei Foster e dei Rogers). Più a sud, esiste una certa ambivalenza: corporeità, ma anche de-materializzazione; il rivestimento è alleggerimento della materia, ma rimane una certa presenza fisica (la texture, in fin dei conti, noi la "tocchiamo" con gli occhi). E poi, naturalmente, la mediterraneità, la presenza fisica delle cose, la luce. Queste poetiche differenti, attitudini mentali ed emozionali, hanno in sé sempre un nucleo di regole: la verità in architettura è un fatto relativo, si risolve sempre solo entro le poetiche. Le esperienze della nuova Berlino, per me che vengo da una cultura dove interessano più le simultaneità delle verità, sono troppo "prussiane", risposte un po' stereotipate alla domanda: "in che stile costruiamo?". Naturalmente, le poetiche vanno fondate sulla coerenza con la storia, non si può fare architettura senza un pensiero teorico à la longue, anche se poi bisogna saper "pugnalare i padri": come dicevo, coerenza e trasgressione, entro le differenti poetiche dell'architettura. Bisogna dire però infine anche un'altra cosa. Al di là delle differenze c'è l'omologazione imposta dalla nuova Europa: saremo condannati, pare, a diventare dei ri-vestitori, secondo le leggi di Bruxelles, che definiscono la nuova figura dell'architetto. Nei nuovi bandi ci sono solo norme, non si parla mai di qualità, e infine tutto si risolverà in termini di management (la vicinanza all'aereoporto, la manodopera che costa poco, la vicinanza dell'autostrada) e di architettura "chiavi in mano". E se qualcuno (un Armani, un Benetton) avrà bisogno di promuovere la corporate-identity, il manufatto bell'e pronto passerà dal "reparto architettura", dove lo rivestiranno, - anche di pietra, come da Pininfarina.

Tobia Scarpa
Come diceva Burelli, anch'io mi sono trovato a dover dare a un pilastro il significato di pilastro e ad essere contraddetto dall'ingegnere e dalla proprietà per i costi; ho dovuto cambiare il progetto e ritrasformarlo in una tecnologia corrente, in cui il rivestimento nasconde la struttura brutale. Ecco: è lo stato di fatto, oggi. Ma prima un'altra questione: gli intonaci di facciata, i rivestimenti lapidei esterni, esposti al maltempo e alle variazioni climatiche, sono da sempre "materiali sacrificali", da sostituire quando saranno consumati, per salvare la cosa più preziosa e costosa: l'elemento strutturale. Io articolo così il mio lavoro di architetto: costruire grandi strutture e poi, per evitarne il deperimento, rivestirle con materiali idonei e a seconda dei mezzi a disposizione. L'architettura è sempre stato un problema di limiti economici; ci sono casi rari in cui si è potuto profondere indefinitamente, ma non sempre con risultati vantaggiosi per la qualità. Perché alla fine questo materiale sacrificale permette di esprimere, attraverso l'articolazione di vari elementi tecnici, come io lo eseguo, quali materiali scelgo, i riferimenti culturali e costruire quel tessuto complesso che mette in relazione materia e forma. Quando si considera l'edificio nel contesto urbano, quasi sempre è in evidenza solo un elemento e si crea un'articolazione spaziale diversa da quella dell'edificio. Ciò porta a riconsiderare la valenza della facciata, la partecipazione alla sua comprensione, alla lettura dell'oggetto e questo fatto lentamente permea tutti gli aspetti del manufatto. Un ipogeo di cinquemila anni fa: tu scendi per quelle scalette di pietra scavata e alla fine ti trovi davanti a un timpano e a tre colonne: ma che ci fanno le colonne là dentro? Non hanno valenza strutturale, dunque assumono valenza simbolica. Il che significa che il mio lavoro è a più livelli e devo far sì che tutte queste cose siano riducibili a sintesi, intuibili. Quindi, la costruzione deve attingere ad un ordine rigorosissimo, da tutti riconoscibile come tale, intorno a cui si può creare ricchezza e variazione. Gli antichi lo sapevano benissimo e aggiungevano elementi, dal dorico al corinzio. Oggi siamo in una fase difficile di transizione, siamo passati da un rigore assoluto - fallimentare perché troppo rigido - al tentativo di recuperare un passato troncato brutalmente dal Moderno. La costruzione, attraverso i suoi meccanismi, dà ricchezza e libertà infinite, che non si possono raggiungere attraverso un meccanismo semplificato, ma solo attraverso un percorso faticoso. L'architettura è, e dovrebbe essere, spazio, volume - a seconda della scala in cui noi la leggiamo - in cui vivere, un elemento scenico nel quale agiamo e che quindi svolge un ruolo importantissimo nella logica delle nostre azioni. Ecco tutte le finezze che vi si possono porre, giocando sulla naturalezza della materia e la "durezza" del pensiero, dialettiche importanti in cui l'aspetto globale è un dialogo più stretto con l'elemento finito. Ecco perché l'architettura è una cosa complessissima, che si può fare solo dopo un apprendistato molto lungo. E l'elemento razionale nel momento delle scelte conta poco, perché decidere solo con la ragione provoca disastri, bisogna lavorare col sentimento, con l'intuizione; tutta la vita passata è la preparazione di quell'attimo. Riguardo ad uno dei temi principali di questo dibattito: sicuramente l'architettura mediterranea è per tradizione una cultura di muri massivi, ma anche le altre soluzioni possono essere straordinariamente espressive. Basti pensare a come si tampona il telaio di legno con la carta nelle architetture giapponesi, oppure alle costruzioni di fango africane, con questo loro colore che si fonde perfettamente nel territorio. Uno, quando le vede per la prima volta, dice "questa non è architettura", ma poi pian piano deve ricredersi. Tutte queste cose appartengono ad un tempo scaduto, è sceso il sipario. Chi ordina di costruire oggi non ha più quel piacere che avevano gli uomini del Quattrocento, che spendevano capitali familiari per far più ricca la propria cultura urbana. E noi questo lo sentiamo nelle nostre città, queste cose palpitano, perché quel desiderio così intenso si è fissato come qualcosa di concreto nella materia e nella forma. L'architettura di oggi è assolutamente indifferente a tutto questo. Perché non c'è più qualcosa che lega tutto, la conoscenza, la cultura, il rispetto per chi sa una cosa. Tutti fanno gli architetti, il cliente mi viene ad insegnare cosa devo fare e come, perché lo ha letto sulle riviste. Una volta questo non succedeva. La cultura di una facciata di pietra è sempre mediata da una conoscenza remota, acquisita nel corso della vita e dell'esperienza. Lévinas dice che una volta gli scrittori stavano molto attenti a ciò che scrivevano perché spesso chi leggeva ne sapeva molto più di chi scriveva. Attualmente invece si può scrivere qualsiasi cosa: tanto nessuno sa più niente.

Tratto da "Facciate di pietra", supplemento di AREA n. 51, Federico Motta Editore

Grund- und Gesamtschule Berlin-Hohenschönhausen, Berlino, Arch. Max Dudler

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Hochhausensemble Hagenholzstraße, Zurigo, Arch. Max Dudler

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Bibliothek der Humboldt Universität, Berlino, Arch. Max Dudler

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Ideale Stadt - Reale Projekte in China, von Gerkan, Marg und Partner

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Millennium Tower, Arch. Gustav Peichl, Boris Podrecca, Rudolf F Weber

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Concorso Nuova sede della Regione Lombardia, Arch. Boris Podrecca

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