DAVID CHIPPERFIELD
Semplice, ordinario, complesso
Fulvio Irace


 

Come per tanti suoi illustri connazionali del passato, anche per il giovane londinese David Chipperfield il "grand tour d'Italie" ha coinciso con una stagione cruciale della sua professione d'architetto, segnando con le tappe ravvicinate dei progetti per Salerno, per Venezia e per Milano un significativo salto di scala dalla semplicità dell'oggetto alla complessità del contesto. Tuttavia, mentre i viaggi italiani di Inigo Jones, di Robert Adam o di Joan Soane si proposero di misurare sull'antico la scommessa di un futuro in patria, quello di Chipperfield si è dovuto confrontare con il deserto dell'architettura italiana degli anni Novanta, a cui ha portato il contributo di un'interpretazione ottimistica del suo paesaggio ibrido e compromesso. Non secondo la logica dell'innesto violento di un linguaggio preformato, ma nell'ottica di una sperimentazione originale che trae proprio dai luoghi la sua principale fonte di riflessione. Se questo da un lato contribuisce a spiegarne la grande fortuna nel Bel Paese - sancita, tra gli altri, dai recenti progetti per il polo culturale nell'Arsenale di Verona, per la Venaria Reale a Torino e per il Castello Sforzesco a Milano - dall'altro fornisce la chiave d'ascolto di una posizione culturale che si staglia con grande nettezza e decisione nel coro difforme del dibattito internazionale. Quando, tra il 1997 e il 1998, vennero banditi i concorsi per l'ampliamento del cimitero di San Michele a Venezia e per gli "edifici mondo" nel centro storico di Salerno, Chipperfield aveva già sperimentato da qualche anno le peculiarità del suolo italiano con il progetto per la casa di un collezionista d'arte contemporanea nella campagna umbra. Sviluppando le implicazioni volumetriche di una pianta rettangolare in relazione al paesaggio, casa Lockhart si inseriva però nel solco di una sperimentazione sulle proprietà spaziali di unità semplici avviata con l'edificio Toyota a Tokyo e presto consolidata nella serie ravvicinata delle case Jazzie B (Londra), Kao (Boston) oltre che nel progetto per un centro Olivetti, provocatoria "summa" teorica di una poetica del "particolare" frettolosamente equivocata come manifestazione del revival minimalista degli anni Novanta. E infatti, nel 1994, la casa in Germania con il suo rivestimento in mattoni e la serrata articolazione degli spazi e dei patii interni, precisava i termini del "riduzionismo" estetico come punto di arrivo e non di partenza, mettendo in luce il suo doppio debito verso il Loos di casa Müller e il Mies di casa Wolf.