Statigrafia parietale

Testo di Alfonso Acocella
 
«Una parte di ogni vita umana, persino di quelle che non meritano attenzione, trascorre nella ricerca delle ragioni dell'esistenza, dei punti di partenza, delle origini.» Marguerite Yourcenar
 
Alle origini del rivestimento
Le soluzioni di configurazione parietale in ambito ellenistico muovono dalla tradizione aulica dell'architettura in marmo della Grecia classica. Nelle celle dei templi le colonne delle navate laterali vennero, in numerosi casi, posizionate vicino alle pareti e, successivamente, negli svolgimenti ellenistici, addossate ad esse in forma di semicolonne (tholos di Delfi, Basse, Tegea) producendo, sia pur in forma ancora embrionale, il trasferimento di un tema architettonico-costruttivo in un motivo architettonico-decorativo. Tale processo è altresì presente nello sviluppo e nella diffusione della casa ellenistica a peristilio nel bacino del Mediterraneo (comprese le colonie e i centri urbani italici influenzati dalla civiltà magnogreca) che ha spesso utilizzato, quale fondale rispetto ad un raffinato arredo amovibile, superfici "involucranti" accuratamente rifinite e decorate in forma di pareti cieche trattate ad intonaco colorato che andranno a fondersi, nel quadro spaziale complessivo, con l'effetto di preziosi mobili, lampade in bronzo, tappeti. Il tema di traduzione su superficie piana di un modellato plastico è perseguito - anzi, più frequentemente sperimentato - attraverso il procedimento di intonacatura della superficie muraria o della stuccatura a rilievo, come è ancora perfettamente leggibile nel grande peristilio della Casa del Fauno o nella Basilica di Pompei (entrambi gli edifici sono del II sec. a. C.) riguardabili come peculiari testimonianze del processo di ellenizzazione in ambito italico da cui non sarà esente la stessa civiltà romana. La massima espressione di una tecnica muraria di tipo stratigrafico, con un'esaltazione dei valori di superficie e di rivestimento parietale, è legata proprio all'esperienza romana sulla quale hanno dato contributi interpretativi fondamentali (fra Otto e Novecento) personaggi di primo piano della cultura artistica ed architettonica europea quali Semper, Bötticher, Riegl, Choisy, Meurer, Bettini e altri. Nell'architettura romana, salvo alcuni temi particolari (quali gli edifici di culto più importanti, i templi), non esiste una corrispondenza diretta, esplicita, fra la struttura portante e la risoluzione della facies parietale, interna o esterna, a vista. La verità strutturale per cui un edificio romano sta in piedi, assolvendo al suo ruolo statico, è molto diversa da quella che, in genere, appare a prima vista; dando questa particolare risoluzione al problema della costruzione gli architetti romani si allontanarono da quanto aveva espresso sin allora l'architettura greca. La maggiore carica innovativa della tecnica costruttiva ellenistica, invece, fa sì che - sia pur a fronte dell'abitudine prevalente alla struttura muraria massiva ed omogenea secondo la maniera greca (questo anche quando si immetterà, per la prima volta nella tradizione occidentale, la tecnica delle murature in blocchi di argilla cotta come le realizzazioni di Velia del III sec. a C. ci testimoniano) - già prima delle esperienze romane la concezione di una costruzione muraria 'composita', 'stratigrafica', con uso contestuale di materiali diversi, trovi i suoi primi, anche se limitati, esperimenti applicativi. Ed è la stessa Velia, città fondata dai Focei, ad esempio, ad offrirci temi di costruzione muraria sviluppati in tale direzione. In ambito romano, già a partire dalla fase tardo repubblicana (II-I sec. a. C.), il muro - ovvero quella parte della costruzione compresa fra il piano di spiccato e il piano di appoggio delle coperture - è storicamente riguardabile come struttura composita e specializzata fatta di molteplici materiali, di strati a funzioni diversificate, organizzati e gerarchizzati dall'interno verso l'esterno. In genere è dato un nucleo murario portante centrale (esso stesso - nella sua sezione - composito) a cui si sovrappone una serie di strati relativamente sottili che "ingrossano" lo spessore dell'ossatura muraria (sia verso l'interno che l'esterno) utilizzando cocciopesti, intonaci, intonaci colorati con pitture ad affresco, encausti, stucchi bianchi e colorati, rivestimenti lapidei a spessore e, in epoca imperiale, anche lastre sottili di marmi policromi, mosaici in pasta vitrea, laterizi a vista. L'ossatura muraria, in forma di solido resistente e di sostegno alla copertura, è, in genere, obliterata; gli strati superficiali di rivestimento in continuità materica e coloristica, delimitano e definiscono lo spazio 'azzerando' ogni evocazione di resistenza della struttura portante. La struttura muraria dell'ossatura risulta, generalmente, tripartita (ovvero composta da tre strati materici): due cortine all'esterno e un nucleo interno, di più rilevante spessore, in calcestruzzo. Nella composizione del nucleo centrale (in cui già dal II sec. a. C. fa da protagonista l'opus caementicium, un materiale destinato a rivoluzionare i sistemi di costruzione dell'architettura antica e a promuovere una grandiosa 'architettura spaziale') un ruolo essenziale è svolto dalla malta di calce (materia) quale elemento aggregante rispetto ai rottami (caementa) di pietra o di laterizio cotto che costituiscono l'ossatura del calcestruzzo stesso allettati a mano nella malta molto fluida da maestranze non necessariamente qualificate come quelle preposte alla realizzazione dei paramenti murari. Privo di cortine, l'opus caementicium è comunemente impiegato unicamente in fondazione; in spiccato, invece, è utilizzato sempre come nucleo interno, in abbinamento con casseforme-cortine molte variegate per tipologia, morfologia e dimensioni dei materiali costitutivi. Tali cortine risultano generalmente formate da elementi - sia nel caso di utilizzo di pietre naturali che di prodotti 'artificiali', quali i laterizi cotti - con una morfologica a 'cuneo' (rigorosa nell'opus reticolatum e nell'opus testaceum, meno definita ma sempre presente nell'opus incertum e nell'opus vittatum). Questa particolare morfologia a bietta è finalizzata, nella specifica costruzione composita romana, ad ottenere - verso l'interno - la compenetrazione degli eterogenei materiali costitutivi (nucleo-paramenti) e - verso l'esterno - una parete completamente pareggiata e complanare, idonea ad accogliere qualsiasi altro strato di rivestimento superficiale da lasciare a vista. Fra le fonti antiche Vitruvio, nel secondo capitolo del De Architectura, precisa con una certa cura le caratteristiche delle diverse tipologie di opus murari romani esplicitando la peculiarità della nuova concezione costruttiva romana a base essenzialmente concretizia e confrontandola con la tradizione greca e il tardo aggiornamento ellenistico che introduce - come già accennato - murature miste ad emplecton, preludio degli sviluppi romani delle murature composite. Rimane, a questo punto, da esplicitare il motivo per cui i romani dissimularono a tal punto l'ossatura muraria portante (rifiutando ogni apporto estetico dell'elemento strutturale), eleggendo, invece, il rivestimento a vero protagonista dell'immagine architettonica. Siamo di fronte, indubbiamente, alla maturazione di una sensibilità alla forma architettonica diversa da quella derivante dalla concezione trilitica greca o peristilia ellenistica. L'obliterazione delle membrature strutturali si accompagna, in genere, nell'architettura romana, a un occultamento del loro peso, della loro tettonicità, della loro resistenza, sfruttando soluzioni di 'ricoprimento' delle murature verticali e delle ampie ed avvolgenti volte, veri dispositivi innovativi della concezione architettonica romana. Nell'arte romana - evidenzia con grande acutezza Sergio Bettini - le volte e le cupole hanno la funzione figurativa fondamentale di raccogliere e unificare gli spazi, di ottenere quell'effetto caratteristico di totalità dello spazio, a cui vengono subordinate anche tutte le forme particolari. È questa totalità spaziale, appunto che determina il significato propriamente architettonico degli edifici romani, e costituisce il punto di partenza per l'esatta comprensione delle forme particolari che in essa vengono assorbite; non sono le forme singolarmente prese o un accostamento di forme singole. Già dagli inizi, dalla stessa adozione della tecnica cementizia, l'accento dell'architettura romana è posta, non sull'elemento, alla maniera greca, ma sul legamento, cioè sull'unità complessiva della fabbrica. In fondo le 'finte architetture' da rivestimento (con pitture dipinte, con placcature marmoree, con mosaici, con stucchi,  ecc.) perseguono la medesima finalità; gettare sulla parete una 'veste' che trasmetta una qualità estetica superiore a quanto sarebbe stato possibile per qualunque altra via. Gli esempi dell'illusionismo strutturale rintracciabili nell'architettura romana  sono molteplici (anche in complessi dove sicuramente non esistevano limitazioni economiche o di competenze tecniche); fra tutti possiamo citare il caso particolarmente significativo delle piattabande in mattoni foderate con lastre di marmo a simulazione di grandi architravi monolitici sia nel Cortile dei pilastri dorici che nel Teatro marittimo della Villa tiburtina dell'imperatore Adriano a Tivoli.
 
Rivestimenti lapidei a spessore / Placcature marmoree sottili
Già nel periodo tardorepubblicano il rivestimento lapideo assume una duplice specializzazione.
La prima è destinata prevalentemente agli esterni, con rivestimenti a grande spessore i cui elementi spesso partecipano alla stessa funzione statica dell'ossatura muraria. Monumenti come il mausoleo di Cecilia Metella lungo la via Appia a Roma non sono altro che enormi nuclei in calcestruzzo con paramenti in blocchi di pietra squadrata autoportanti lasciati a vista (opus quadratum), di cui alcuni - disposti come diatoni, perpendicolarmente allo sviluppo murario - risultano annegati nello spessore della massa concretizia. L'idea di riservare al paramento murario di facciata i blocchi squadrati di grosso spessore anticipa, cronologicamente, la seconda soluzione di rivestimento - tipicamente romana - ottenuta impiegando lastre marmoree sottili policrome (l'opus sectile) posate sulle pareti murarie portanti tramite grappe di bronzo e malta di calce. Quest'ultima tecnica - sviluppata dai romani a partire dall'età augustea quando, grazie all'avanzamento dei processi di lavorazione, fu possibile tagliare i blocchi di marmo in lastre di spessore anche al di sotto del centimetro - sarà indirizzata verso un uso sofisticato e opulento dei litoidi più rari e pregiati prediligendo l'accostamento contrastato di marmi e calcari policromi che affluivano, via mare, da tutti i territori dell'Impero. I pannelli di marmo - le crustae - non si presentano mai in grandi dimensioni risultando (quando vengono concepiti secondo 'disegni geometrici') dalla combinazione di elementi lineari (cornici, fasce) che perimetrano, al contorno, specchiature in cui si inscrivono, a contrasto, lastre più piccole di forma regolare: quadrati, rettangoli, triangoli, losanghe, cerchi. Più raramente le incrostazioni si accompagnavano ad elementi 'in solido' (valga per tutti la spettacolare partitura architettonica in marmo numidico del Pantheon adrianeo) sottoforma di membrature legate alla concezione dell'ordine (lesene e colonne con capitelli, cornici, trabeazioni ecc.). È soprattutto con l'epoca di Augusto che si gettano le basi per gli svolgimenti successivi.  Ai marmi bianchi, in omaggio alla tradizione greca, è affidato in genere il compito di suggellare, entro la compagine urbana, l'immagine 'composta', 'equilibrata', 'neoatticista', dei grandi monumenti augustei; basti qui citare la Basilica Emilia, il Tempio Sosiano e, soprattutto, il Foro di Augusto; monumenti, questi, i cui resti sono ancora oggi visibili all'interno della stratificazione archeologica secolare di Roma. Negli interni degli edifici pubblici prese avvio, invece, la tendenza alla enfatizzazione spettacolare ed illusionistica dello spazio affidata, sempre più, a rivestimenti parietali e pavimentali in opus sectile che utilizzavano la forza policromatica, la suggestione delle venature e delle 'macchie' dei marmi, riprendendo e trasferendo la sfarzosità e il lusso abitativo (già acquisito dai ceti aristocratici e mercantili romani nelle domus e nelle ville suburbane di villeggiatura tardorepubblicane) all'architettura di interni  dei grandi edifici pubblici imperiali destinati a funzioni politiche, religiose, cerimoniali. Nei pochi casi superstiti - dal Pantheon al Basilica di Giunio Basso, dall'Aula fuori Porta Marina a Ostia alla tardoromana S. Vitale di Ravenna - il rivestimento policromo (in opus sectile geometrico o figurale) si estende verso l'alto foderando grandi campiture delle superfici murarie. Nelle lussuose abitazioni - legate prevalentemente alle ville imperiali, a quelle della classe senatoriale, degli influenti liberti o dei ricchi mercanti - il rivestimento non ricoprirà quasi mai intere pareti, foderando invece un'altezza relativamente modesta (poco più di un metro) oltre la quale, dopo una eventuale sottolineatura plastica di una cornice in marmo in aggetto, prosegue con una finitura ad intonaco affrescato, ad encausto, a stucco. A fianco degli schemi geometrici di rivestimento marmoreo vennero ben presto introdotti soluzioni di opus sectile più elaborate che svilupparono, all'interno delle composizioni generali, temi figurativi a soggetto mitologico, eroico, ecc. grazie all'utilizzo della tecnica dell'intarsio, proponendo una visione dell'incrostazione marmorea come 'pittura di pietra', in similitudine a quanto già promosso dalla più antica tradizione a mosaico. Quest'ultimo tipo di rivestimento marmoreo sembra essere stato introdotto, secondo Plinio, durante il regno di Claudio (41-54 d.C.) registrando lungo il principato di Nerone una ulteriore accentuazione di sperimentazione ed enfatizzazione figurativa. Un successivo sviluppo si registrerà soprattutto nel tardo Impero con gli esempi più cospicui, e giustamente famosi, quali la Basilica di Giunio Basso e l'Aula cristiana fuori porta Marina a Ostia.
 
Mosaico parietale
La tecnica del rivestimento a mosaico, per secoli limitata a redazioni pavimentali ottenute con piccole tessere (opus tessellatum) o piccolissimi frammenti (opus vermiculatum) di pietra o di marmi colorati, fa registrare ad una certa data un allargamento applicativo che progressivamente investirà sempre più estese superfici architettoniche comprese quelle parietali e voltate. I primi esempi di rivestimento musivo parietale si legano soprattutto alla definizione di piccoli manufatti riguardabili attraverso la categoria degli 'arredi architettonici' fissi (quali possono essere considerati le fontane, i ninfei da giardino con nicchie ed esedre) godibili, ancor oggi, nelle loro condizioni di integrità figurativa ed esecutiva nei numerosi triclini estivi delle residenze di Stabia, di Ercolano (casa di Nettuno ed Anfitrite), Pompei (casa della Fontana piccola, casa della Fontana grande, casa di Marco Lucrezio). Meno frequenti, ma pur sempre documentati, i supporti architettonici verticali rivestiti con mosaici (come nel caso della Domus con le colonne a mosaico portate alla luce negli scavi di Pompei ed attualmente esposte nel Museo archeologico di Napoli). Benché spetti alla civiltà bizantina il raggiungimento dei risultati più spettacolari nell'uso di mosaici dai toni dorati e cangianti su estesissime superfici murali, il primato dell'invenzione e dello sviluppo di tale tecnica di rivestimento va riconosciuto ai romani che inizialmente la veicolarono su limitate superfici parietali, poi su quelle voltate di edifici importanti. Basti citare la volta delle terme di Baia, il criptoportico della Villa Adriana a Tivoli, la volta con eleganti decorazioni a viticci della Rotonda dei Sette sapienti ad Ostia; ed ancora la cupola del Tempio di Minerva medica a Roma (il cui rivestimento musivo è andato purtroppo perduto), la volta anulare a botte dell'ambulacro ancora perfettamente visibile della chiesa di Santa Costanza, sempre a Roma; infine il capolavoro dell'architettura tardoromana come S.Vitale a Ravenna. Un passo famoso di Plinio (Storia naturale, XXXVI, 189) dà una cronologia abbastanza precisa all'estensione applicativa del mosaico dall'ambito pavimentale a quello delle superfici voltate, legandola all'età giulio-claudia; nello stesso passo Plinio evidenzia - inoltre - i nuovi materiali adottati per tali redazioni musive: le tessere vitree, eventualmente smaltate, al fine di conferire un più sgargiante colorismo parietale. I mosaici a tessere vitree (più leggere, e quindi particolarmente idonee ad essere fissate sull'intradosso delle volte senza appesantirne la struttura) svolgono una funzione analoga a quella delle decorazioni a pitture, a stucchi, a incrostazione marmorea concorrendo alla definizione degli ambienti interni e all'avvolgimento unitario dello spazio attraverso un gusto parietale del rivestimento fortemente coloristico, proteso nell'architettura romana ' in antitesi alla sintassi figurativa greca ' alla smaterializzazione dei partiti tettonici in vista di risolvere tutto in termini di superficie e di colore come precisato da Sergio Bettini: Ma è la decorazione a mosaico in se stessa, con la sua particolare sintassi anche figurativa, che non può originarsi dalla tradizione greca, anzi presuppone, necessariamente, un completo rivolgimento di tutta la concezione greca dello spazio e della forma. Poiché la decorazione musiva, s'è visto, si determina come ultimo e più maturo e coerente risultato della trasformazione delle pareti in superfici di valore cromatico, e tale ultima trasformazione può avvenire soltanto nell'ambito d'una tradizione architettonica, la quale si sia distaccata dal sistema trilitico greco, o da quello peristilio ellenistico, ed abbia trasferito, appunto, sulla parete integralmente chiusa anche in alto per mezzo della cupola, l'intera responsabilità della definizione degli spazi interni. Cioè della tradizione romana. La quale, quando riduce codesta parete, per rispondere al nuovo senso dello spazio, ad un illusivo diaframma di colore, non soltanto è condotta a ricercare nelle rivestiture marmoree e nelle decorazioni a mosaico un più ricco effetto cromatico, ma poiché tale ricerca risponde al bisogno di dare alla parete un significato di spazialità immateriale, porta necessariamente a ridurre le stesse 'figure' a superfici cromatiche senza spessore (...). È dunque un nuovo linguaggio, antitetico a quello plastico dell'antica Grecia, che si viene maturando a Roma, ed è questo, che viene accolto da Bisanzio.
 
Stucco
Il lavoro ornamentale di rifinitura in rilievo (in assenza di partiti decorativi in pietra o marmo policromo) passò, nell'architettura romana, attraverso l'uso dello stucco bianco o colorato. Sotto il termine di 'decorazione a stucco' si iscrivono tutti i trattamenti a rilievo eseguiti sulle superfici (sfruttando la plasmabilità e la duttilità della malta di calce o del gesso) ma anche gli strati sottili di profilatura quali, ad esempio, il lavoro effettuato sulle scanalature delle colonne di tante domus romane, frequentemente erette con materiali di scarsa qualità e di resa estetica al punto da necessitare di una superficie di regolarizzazione e di nobilitazione.
Attraverso la variegata composizione della malta si produssero tipi di stucchi con intonazioni superficiali diversificate:
- stucchi bianchi (destinati a conservare tale aspetto ad imitazione del marmo) ottenuti miscelando la calce con polvere di marmo o di pietre calcaree chiare;
- stucchi colorati con gli stessi pigmenti minerali utilizzati per la pittura ad affresco;
- stucchi smaglianti e risplendenti con sottili ricoprimenti in 'foglie d'oro'.
In epoca tardorepubblicana - quando ancora non si erano molto diffusi né i rivestimenti marmorei in opus sectile né quelli a mosaico parietale - la tecnica dello stucco rappresentò la forma di decorazione più pregiata, come ancora oggi si può cogliere nelle terme campane le cui superfici voltate degli ambienti principali (quali, ad esempio, il tepidarium delle Terme del Foro di Pompei) erano completamente coperte con composizioni a rilievo. Non mancano nell'architettura romana esempi di splendide decorazioni a stucco capaci di reggere un confronto con i più sfarzosi rivestimenti marmorei e musivi. Basti citare gli stucchi a rilievo di grandissima intensità figurativa, sia plastica che coloristica, degli ambienti della Domus aurea di Nerone come la volta della Sala di Ettore e Andromaca, quella della Sala di Achille a Skyros e soprattutto la famosissima Volta dorata la cui decorazione lussuosa dà conclusione sommitale proprio ad una sala fra le più superbe della reggia neroniana. Tali volte associano alla intensità coloristica dei campi mediani trattati 'in piano' (utilizzando la tecnica dell'affresco, con toni accesi e contrastati di blu, rosso, verde) le riquadrature a rilievo dei cassettoni in stucco 'stampato' dalle tinte risplendenti offerte dal loro ricoprimento in 'foglie d'oro'.
 
Opus testaceum 'obliterato' / Opus testaceum a vista
'Ciò che colpisce i visitatori di Roma e dell'immediato suburbio è l'immagine di un universo monumentale di mattoni dal quale emerge, qua e là, qualche isolata traccia di travertino o di marmo. Va sottolineato che le più straordinarie realizzazioni dell'architettura imperiale di Roma, specie dall'età neroniana, sono in mattoni.'  La Domus aurea di Nerone, l'interno del Colosseo, il complesso palaziale del Palatino, i Mercati traianei, il Pantheon, il Mausoleo di Adriano, la grande urbanizzazione di Ostia del II secolo, le Terme di Caracalla e di Diocleziano, le mura aureliane ecc. sono solo alcune delle più famose architetture realizzate mediante l'uso estensivo dell'opus testaceum con cortine di mattoni cotti che oggi si impongono allo sguardo della città antica. Ma questa spettacolare scenografia di rossi mattoni che Roma offre allo spettatore odierno come si sa è, nella maggior parte dei casi, un paesaggio di scheletri, di ossature murarie originariamente rivestite e quindi 'obliterate', sia negli esterni che negli interni delle architetture, mediante crustae marmoree, intonaci, stucchi. Solo pochi di questi monumentali ruderi, corrosi dal tempo, vennero costruiti espressamente per lasciare a vista i paramenti di laterizio cotto. La prima grande opera in cui sono state saggiate le potenzialità linguistiche dell'opera laterizia con un uso a vista del materiale è il vasto complesso commerciale dei Mercati traianei, commissionato direttamente dall'imperatore Traiano al grande architetto Apollodoro di Damasco in avvio del II secolo dopo Cristo. Lungo il secondo ordine dell'emiciclo della grande esedra, che seguiva l'inviluppo esterno del Foro voluto dallo stesso Traiano, è disposta in successione ritmica ed unitaria una lunga teoria di aperture sormontate da archi con partiti architettonici in mattoni rossi messi a contrasto con cornici, portali e capitelli in travertino. La precisione dell'apparecchiatura muraria, insieme all'assenza sia di buche pontaie che di fori per l'alloggiamento di grappe metalliche sorreggenti rivestimenti marmorei, non lascia dubbi circa l'uso consapevole a vista del paramento in mattoni. A partire dalla metà del II sec. d. C. (e fino alla fase tardo imperiale) si moltiplicano le applicazioni dell'opus testaceum con mattoni in forma di rivestimento decorativo che sfruttano frequentemente il gioco della policromia dei laterizi, dipendenti dal tipo di argilla usata e dalla temperatura di cottura. Inoltre è da questa età che si iniziano a saggiare - più di quanto non fosse avvenuto nei Mercati traianei - le potenzialità di un materiale docile ad essere plasmato nelle più varie configurazioni di modellazione plastica come si legge, ad esempio, nei numerosi portali ostiensi (con colonne, timpani e cornici sagomate) posati in aggetto, fuori dal piano complanare del paramento laterizio. Tale nuovo uso del materiale porterà ben presto a comporre intere facciate in cui i colori caldi e terrosi dei laterizi si accompagneranno all'uso di modanature ottenute dallo stesso materiale evitando il ricorso al rivestimento con intonaco, con stucco, con marmi, ecc. e aggiungendo, altresì, una ulteriore tipologia al già ampio repertorio disponibile di rivestimenti. A Roma fra le opere superstiti possiamo citare le piccole terme di Villa Adriana, il  Sepolcro di Annia Regilla e numerose altre edicole funerarie fuori delle porte urbiche; ad Ostia l'Insula del Larario, l'Horrea Epagathiana e, anche qui, numerose tombe nell'Isola Sacra. La particolarità dell'opus testaceum non obliterato è nel dar vita ad un rivestimento che lascia a vista - così come era già avvenuto per l'opus incertum (Santuario della Fortuna primigenia di Palestrina, Tempio di Giove Anxur a Terracina) o per l'opus reticulatum - la cortina muraria di contenimento dell'opus caementicium; quindi uno strato di finitura a forte spessore, autoportante, strettamente partecipe della costituzione dell'ossatura muraria. Tale condizione ha fatto sì che - rispetto alle sottili crustae divelte e riutilizzate nei secoli successivi alla decadenza dell'impero romano, agli stucchi mangiati dal tempo, alle pitture conservate solo se protette da fenomeni di interramento delle strutture architettoniche - tale rivestimento risultasse eterno  come ci rammentano le parole poetiche fatte proferire a  Adriano, imperatore e architetto 'dilettante', dalla Yourcenar: A Roma, ho adottato, di preferenza, il mattone eterno, che assai lentamente torna alla terra donde deriva, e il cui cedimento impercettibile avviene in tal guisa che l'edificio resta una mole, anche quando ha cessato d'essere una fortezza, un circo, una tomba.
 
Attualità dell'antico
Rispetto all'antico e ai suoi archetipi vorremmo intrattenere - come i grandi architetti di ogni epoca ci hanno sempre insegnato - una relazione attiva e critica che, spingendosi oltre il puro atto contemplativo, permetta di coglierne la sempre latente attualità. Acquista valore, in questa riflessione teorica, ritrovare le anticipazioni significative, interrogarsi e confrontarsi con la qualità e la raffinatezza espresse dalle civiltà che ci hanno preceduto, delineare la 'profondità' del presente attraverso ciò che lo ha reso possibile. D'altronde l'archetipo assume un'importanza evocativa, richiama l'essenza originaria della costruzione, della forma. In questa direzione di lavoro l'archeologia più che disciplina gnoseologica o letteraria può diventare una fonte inesauribile di insegnamenti per il progetto contemporaneo, aiutandoci a 'trovare al di là di ogni nascita, il determinarsi di una fondazione originaria, il delinearsi di un orizzonte che non si esaurisce, né si compie mai." Il principio del rivestimento dei corpi architettonici, dove il sistema strutturale retrocede in secondo piano rispetto alla forma di un involucro indipendente fatto avanzare in 'prima linea", è oggi di nuovo al centro del progetto architettonico. Il lavoro progettuale dei contemporanei ci appare come un lavoro sempre più di tipo stratigrafico in forte analogia concettuale con il quadro sinora da noi delineato, dove comunque alle strutture continue di tipo murario si sono aggiunte le strutture a telaio in acciaio o in calcestruzzo armato con i loro aggiornati dispositivi di ancoraggio a secco fra la discontinuità strutturale del sistema portante e la continuità dello strato involucrante esterno. Il tema del rivestimento lapideo o marmoreo, quello ancora più recente ed attualissimo della parete ventilata e degli involucri in cotto discostati dal supporto murario sottostante, la riproposizione del processo di 'smaterializzazione tettonica' (con forti analogie rispetto a quanto si è illustrato in apertura di questo saggio), gli stessi sistemi di ancoraggio a mezzo di elementi metallici ci appaiono, più che invenzioni peculiari del nostro tempo, reinterpretazioni di temi antichi. In questo senso si spiega il nostro atteggiamento, il nostro interesse per i 'cominciamenti' che tendono a saldare, a dare una profondità ma anche un argine al dilagante 'spaccio di cose nuove', di 'presunte innovazioni'. Louis Kahn, circa mezzo secolo fa, dopo tre mesi di visite e riflessioni teoriche sul corpo antico di Roma, che tra l'altro segneranno tutta la sua fase architettonica matura nel segno di una 'modernizzazione' del paesaggio dei ruderi, ci ha lasciato parole degne di riflessione per tutti noi architetti: Ho capito che l'architettura italiana continuerà ad essere la fonte d'ispirazione per il futuro. Chi la pensa diversamente dovrebbe riflettere ancora. L'esito dei nostri lavori sembra insignificante se comparato a questa città dove sono state sperimentate tutte le possibili combinazioni di forme pure. Ciò che si rende necessario è capire come l'architettura italiana si relazioni al nostro sapere costruttivo e ai nostri bisogni.
Casa dei Vetti, Pompei

Casa dei Vetti, Pompei

Casa del Fauno, Pompei

Casa del Fauno, Pompei