Intervista a Giovanni Anceschi

D.  L'architettura contemporanea partecipa al generale processo evolutivo dei codici estetici e di comunicazione delle immagini?
R.  Io non sono un architetto, mi occupo di design della comunicazione, mi è difficile considerare il concetto di facciata in senso tradizionale. Oggi viviamo la città passandoci dentro, è uno spazio straordinariamente fluido e difficilmente ci troviamo in quella condizione contemplativa per percepire qualcosa come "facciata". La facciata è la "faccia" dell'edificio, preferisco quindi l'espressione "pelle" dell'edificio intesa come epidermide. L'epidermide è variamente specializzata, come i sauri che hanno l'epidermide particolarmente sensibile e colorata in certe parti e particolarmente dura in altre in relazione alla funzione. Mi piace l'espressione pelle per questo legame della facciata con il corpo, intesa come protesi.

D.  Una facciata "funzionalista"...
R.  La funzionalità deve essere intesa come una membrana osmotica tra interno ed esterno tuttavia la modalità di come funziona verso l'interno e l'esterno è molto mutata: Al posto del potere del Principe o del signore, all'esterno è rappresentato il potere dell'azienda.
Il valore emblematico dell'architettura è sempre servito nella storia a comunicare potere, prestigio, ricchezza. Oggi valenze analoghe si esprimono attraverso la traduzione di messaggi di importanza e di rappresentatività affidati a simboli visivi caratterizzati dall'immediatezza comunicativa dell'abito dell'architettura attraverso il suo tessuto epidermico.

D.  Come si è modificata la percezione della facciata?
R.  Si è radicalmente modificata la fruizione della facciata, cambiano le modalità di avvicinamento, la velocità e la mobilità di approccio come aveva già segnalato Virilio nel suo saggio sulla "dromologia". La vera novità sono però anche le gigantesche dimensioni delle facciate di quelle che amo definire il "sublime artificiale" di massa. È mutata la ricerca visuale sulla percezione delle immagini: le superfici esterne si fanno interpreti di una nuova immagine urbana, diventano slogan di una poderosa campagna pubblicitaria che riflette i caratteri e l'identità dell'attuale e complesso sistema città legato anch'esso a logiche di rapido consumo. Una particolare preoccupazione pare essere quella di imporre l'individualità degli edifici con l'immagine forte che ci restituiscono le loro facciate, pellicole sensibili, pelli, la cui efficacia comunicativa è in diretta competizione con quella cinematografica e televisiva.

D.  È evidente in architettura la trasposizione di immagini e tecniche desunte direttamente dal mondo della grafica e dell'industrial design?
R.  Gli edifici sono i nuovi "trasmettitori" urbani, cambiano i propri codici di riferimento, rifiutando ordini o dogmi approdano a una completa versatilità di forme e contenuti per i quali non ci sono regole. L'involucro dell'edificio è assimilabile all'impaginato grafico. La pubblicità invade in modo esplicito le facciate, come una pelle colorata che trasforma la città in una superficie cinetica e vivace, parlante, c'è una sorta di valore estetico in sè nella pelle pubblicitaria. Progettare superfici-immagini significa dunque farsi interpreti di un'esigenza di una nuova percezione e provocare la modificazione degli spazi e delle forme stesse della visione architettonica. Significa "mettere in circuiti" immagini di sintesi, sequenze, un'estetica dell'architettura capace di relazionarsi alle consuetudini dei media e delle logiche pubblicitarie, per un pubblico abituato sempre più ai sofisticati artifici di design che caratterizzano gli oggetti quotidiani. È nuovo tuttavia il fatto che questa pelle non è incollata sopra ma diventa parte integrante dell'architettura.

D.  Cambiano dunque i codici semantici. Si va verso la smaterializzazione?
R.  La condizione ideale della concezione della nuova facciate è quella del "monitor", se non è acceso non c'è, questo è il limite estremo. Lo schermo è il luogo di tutte le potenzialità, dove possono succedere tutte le virtualità, o morfologico-architettoniche oppure tutte le potenzialità comunicative. Sulla stessa superficie si può simulare ogni forma che si trasforma con vari morfing e programmi, come una grande tela per opere d'arte. La scelta del materiale diventa fondamentale per quanto riguarda gli aspetti tattili e semantici soprattutto per quanto riguarda gli interni. Ogni edificio esprime dunque su ciascuna delle sue facciate-schermo la sua programmazione.
La superficie come elemento fisico si smaterializza, l'architettura di un edificio, quando questo non è più costretto come tassello di un più generale prospetto urbano, ha bisogno di costruire codici che per continuità o scomposizione, per trasparenza o opacità delle parti di facciata, possano tuttavia definirne compiutamente tutti i lati in un rapporto percettivo dinamico attorno a esso.

Tratto da "La pelle degli edifici", supplemento di AREA n. 64, Federico Motta Editore

Dichroic Light Field, Design Team JCDA, Manhattan, 1995

Dichroic Light Field, Design Team JCDA, Manhattan, 1995

Dichroic Light Field, Design Team JCDA, Manhattan, 1995

Dichroic Light Field, Design Team JCDA, Manhattan, 1995