La citazione secondo Rafael Moneo

Testo di Alessandro Massarente
 
Il Museo di Arte Romana a Merida ha costituito negli ultimi vent'anni la pietra di paragone di un certo modo di intendere il rapporto tra l'antico e l'architettura moderna: ciò attraverso un uso della citazione assolutamente indiretto e ambiguo, proprio perché non immediatamente avvertibile.
Al punto che questa grande biblioteca di resti lapidei - cornici, capitelli, elementi di statuaria, mosaici, frammenti di una civiltà del passato raccolti in un edificio contemporaneo - sembra capace, anche a distanza di anni dai primi studi che se ne sono occupati, di suggerire al visitatore la dimensione dell'insediamento romano attraverso l'allusione a quel mondo, che si produce tramite uno spazio espositivo capace di riflettere il senso degli stessi oggetti e frammenti che vi sono esposti, che si rivelano nella loro nudità.
Quella certa 'ridondanza' presente nell'iconografia del muro romano viene assunta in questo museo come supporto adeguato per l'esposizione di resti archeologici dello stesso periodo storico. In realtà questa ridondanza sembra essere piuttosto la traccia di un'idea di 'permanenza' e di durata dell'architettura che lo stesso Rafael Moneo chiarisce in alcuni suoi scritti: la volontà di tradurre in chiave contemporanea l'idea di costruzione romana consente di accogliere ed esporre in modo adeguato reperti e frammenti dell'architettura antica. Un gioco di rimandi al limite dell'ambiguità, nel quale non è possibile immediatamente percepire la differenza tra antico e contemporaneo, tra originale e citazione, come è possibile rilevare nello stesso impianto di questo museo.
Il sistema di murature parallele si riferisce infatti ad un princìpio tettonico che è tutt'altro che aderente alla classicità romana, ma semmai riprende il principio compositivo di alcuni spazi gotici e medievali o, nella volontà dell'architetto, l'atmosfera dell'interno di certe basiliche romane o di certe incisioni di Piranesi, o infine lo schema iterativo di alcune strutture industriali moderne. La stessa sottile ambiguità nell'uso del riferimento antico si può rilevare nell'abile contrappunto tra la costruzione in mattoni e il sistema di solette in cemento armato che determina un dispositivo spaziale ben diverso dal tradizionale edificio cellulare in muratura che si sarebbe determinato chiudendo la teoria di murature parallele con una sequenza di muri ortogonali a queste.
Un dispositivo che sembra essere presente fin dai primi disegni ideativi, nei quali tali murature parallele sono messe in relazione con gli strati archeologici inferiori e nel contempo lasciano percepire le virtualità espressive determinate dalla sequenza dei contrafforti esterni.
Il rapporto tra questa teoria di murature parallele e la sequenza degli archi in esse scavati dà luogo ad una seconda ambigua citazione dell'architettura romana, una sorta di 'navata virtuale'.
Ricorrendo ad uno dei concetti spaziali che hanno determinato la stessa idea di museo - la galleria - lo spazio espositivo è infatti organizzato come una successione di pareti scavate che trasformano la figura della navata, attraverso il meccanismo della visione frontale, in un vero e proprio spazio prospettico.
Si produce dunque una sorta di sottile relazione dialettica tra l'effetto ritmico delle murature trasversali e la visione prospettica longitudinale determinata dalla sequenza degli archi scavati nelle stesse murature.
Questo abile artificio compositivo viene esaltato da un trattamento della luce che viene introdotta in tre differenti modi all'interno dello spazio museale: indiretta da alte finestre poste alla sommità dei contrafforti sul lato sud e schermata da una parete interna che conduce la luce dall'alto verso il livello della navata; zenitale bagnando uniformemente dall'alto gli spazi inferiori e correndo lungo le navatelle; diretta tramite grandi finestre verticali rivolte a nord.
Come in quella tradizione che ha generato tra Settecento e Ottocento la figura della galleria, da Etienne Louis Boullée a Hubert Robert, la luce esalta la sequenza degli spazi, ritma il procedere nella navata, misura la dimensione delle parti e del tutto.
Una terza sottile ambiguità è possibile rilevare nell'uso dei materiali: è lo stesso Moneo a chiarire infatti come la composizione materica di questo museo non sia affatto una citazione letterale dell'opus romano. Con un abile procedimento di traslato, egli realizza pareti prive di giunti di malta tra i mattoni, previsti invece uniformemente nella parete romana. Questo sottile accorgimento, oltre alla volontà di rifuggire l'apparente letteralità della citazione, mostra una superficie molto più astratta, sulla quale i reperti archeologici e i frammenti lapidei esposti risultano meno contaminati dalla presenza di un manto superficiale alle spalle. Questo infatti vede smorzato il proprio naturale carattere di orditura per accentuare la vibrazione delle diverse tonalità di colore di cui si compone.
Usare i mattoni senza giunti - o più precisamente con giunti secchi senza la presenza di malta - rafforza il carattere laterizio del materiale e pone il mattone in condizioni di maggiore purezza, consentendo al muro di rimanere un elemento architettonico quasi astratto, senza farlo diventare quella sorta d'agglomerato che esso tende ad essere. Credo che l'uso astratto dei materiali derivi dal nostro tentativo di tenerne in vita l'identità, senza dissolverli nella realtà dell'elemento architettonico.
Questa è forse una delle ragioni per cui questo edificio, stretto tra la seduzione della mìmesi e la scelta di un'analogia concettuale e tettonica prima che stilistica, fondata sull'antico princìpio dell'opus testaceum lasciato a vista e dell'arco in mattoni, sia apparso, a coloro che tra i primi ne scrissero, come compiuto laddove non era ancora interamente realizzato, come antico quando in realtà si trattava di un edificio contemporaneo, una sorta di 'copia' imperfetta di un edificio antico contenente frammenti 'originali' dell'antico.
La questione della riproducibilità dell'opera di architettura, della copia, anche se può apparire oggi marginale, sembra tuttavia essere alla base della dissoluzione della teoria dei tipi che si è gradualmente manifestata negli ultimi vent'anni, ed è lo stesso Moneo che ne fa menzione già nel 1978 in un testo dal titolo Considerazioni intorno alla tipologia:
L'architettura primitiva, sia le prime capanne che le costruzioni arcaiche di pietra, erano concepite come prodotti di un'attività parallela ad altre pratiche e altri mestieri artigianali, come la ceramica, la costruzione di ceste, la tessitura. Da questo punto di vista l'unicità dell'opera di architettura era negata. Un'opera d'architettura, una costruzione, una casa, al pari di una barca, di un vaso o di un'anfora, sono definite da caratteri formali legati a problemi che vanno dalla costruzione all'uso e che rendono possibile la loro riproduzione. In base a questi presupposti, si può dire che l'essenza dell'oggetto architettonico sta nella sua ripetibilità.
Da quando il tipo si è ridotto a immagine, o a vuota ripetizione di schemi precostituiti, la citazione sembra quindi essere diventata l'unica modalità di radicamento dell'architettura nella storia del luogo, una storia peraltro fatta di frammenti.
L'architettura, che in passato era arte di imitazione e di descrizione della natura, torna ad esserlo, ma prendendo questa volta per modello la stessa architettura. Dunque torna alla mimesis, ma di se stessa, riflettendo la realtà della storia, una storia che si presenta spezzata e frammentata. L'unica realtà che rimane all'architettura è la sua storia. Il mondo di immagini offerto dalla storia è l'unica realtà sensibile che non sia stata distrutta dalla conoscenza scientifica o dalla società.
È questo anche il motivo per cui le rovine di Augusta Emerita e il nuovo museo si accordano perfettamente senza bisogno di alcun riferimento stilistico o procedimento geometrico, ma attraverso l'uso del medesimo principio costruttivo, che rende quasi naturale l'apparenza, ed insieme ovvio il germe di un paradosso: quello generato dal costruire sopra le rovine, nascondendo e nel contempo rivelando quei resti che sono la ragione stessa dell'esistenza del museo, secondo un principio di sovrapposizione e stratificazione che ha radici antiche nella storia dell'architettura.
Sezione

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Vista interna

Vista interna

Vista interna

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Dettaglio di facciata

Dettaglio di facciata