Se escludiamo gli ambiti specialistici, fino a soli tre anni fa, l’intelligenza artificiale era relegata all’immaginario collettivo della fantascienza, della letteratura e del cinema. La sua rappresentazione oscillava tra visioni utopiche e scenari distopici, rimanendo tuttavia confinata in un orizzonte concettuale astratto e spesso ambiguo. La mancanza di una diffusa consapevolezza sulle sue reali potenzialità ne faceva un oggetto di fascinazione più che uno strumento operativo, confinandola nel regno dell’ipotetico piuttosto che in quello del tangibile. Questa percezione era ancor più marcata nel campo dell’architettura e del design, ambiti in cui il numero di professionisti e ricercatori impegnati nello studio e nell’applicazione di metodi computazionali basati sull’AI era estremamente limitato.
La disciplina architettonica, storicamente legata a paradigmi progettuali consolidati e a un’impostazione metodologica che privilegia la razionalità formale, sembrava distante dall’idea di una progettazione mediata da reti neurali e apprendimento automatico. Anche nella fase più libera ed esplorativa del concept, l’idea stessa di affidare a una “macchina” un processo ritenuto strettamente creativo appariva come un paradosso irrisolvibile. Questa percezione si è protratta anche quando tecnologie come il machine learning e reti neurali avanzate hanno iniziato a mostrare il loro potenziale.
Un caso emblematico è quello di StyleGAN (2018), un modello generativo capace di produrre immagini sintetiche di straordinaria qualità e realismo (al momento della sua introduzione, uno degli esempi più brillanti di questa tecnologia era la pagina web This Person Does Not Exist). Sebbene per certi aspetti si possa considerare un precursore dei moderni Diffusion Models (es. Midjourney), StyleGAN non ha raggiunto la stessa popolarità né la stessa comprensione diffusa, principalmente a causa della sua complessità d’uso. Di conseguenza, è rimasto confinato in applicazioni di nicchia, evidenziando una certa resistenza da parte dei settori dell’architettura, del design e della grafica, nell’adottare strumenti basati sull’apprendimento automatico, lasciando inespresse numerose potenzialità creative. Per molti versi, l’universo della progettazione e dell’espressione visiva confinava concettualmente l’AI agli aspetti più tecnici, considerandola uno strumento destinato a potenziare il problem-solving avanzato e l’ottimizzazione dei processi, senza intaccare la dimensione legata all’emisfero destro del cervello (l’area legata ai processi dell’immaginazione). Ora, a distanza di pochi anni, il panorama è radicalmente mutato.
L’affermarsi e la rapida diffusione di strumenti basati su intelligenza artificiale generativa - dai Diffusion Models come Midjourney, DALL·E, Stable Diffusion, fino agli LLM (Large Language Models) come ChatGPT e DeepSeek - ha trasformato in modo irreversibile il nostro rapporto con questa tecnologia. Non si tratta più di un dominio esclusivo della ricerca avanzata, ma di un fenomeno che permea il quotidiano, offrendo strumenti di creazione e ottimizzazione ormai accessibili a una vasta gamma di utenti e a tutte le discipline tecniche e creative. In questo risiede il “colpo di scena” dell’AI: se inizialmente si pensava che avrebbe influenzato esclusivamente l’emisfero razionale, potenziando logica e calcolo, sta ora trasformando profondamente anche il modo in cui le idee prendono forma.
L’AI si sta lentamente imponendo come un nuovo paradigma progettuale, introducendo una modalità operativa in cui la capacità di generare, elaborare e correlare dati supera la tradizionale sequenzialità del pensiero progettuale “lineare”. Tale cambiamento ha portato da un lato a una nuova abitudine operativa (generare rapidamente concepts e stimoli visivi o impostare risoluzione di problemi attraverso gli LLM), dall’altro a un’adozione spesso acritica dei nuovi strumenti. Questa fruizione accelerata, se da un lato ha reso l’AI più immediata e accessibile, dall’altro ha favorito un’interpretazione superficiale, conducendo talvolta a esiti insoddisfacenti o a un eccesso di aspettative non realistiche. Parallelamente, il dibattito in ambito architettonico e progettuale oscilla tra attesa e diffidenza, contribuendo a un clima di polarizzazione che ostacola una valutazione oggettiva delle potenzialità e dei limiti di questi sistemi. La complessità dell’intelligenza artificiale impone dunque un approccio critico, capace di superare sia l’entusiasmo ingenuo che il rifiuto aprioristico, per favorire invece un’integrazione consapevole e metodologicamente fondata nel processo creativo e progettuale.
Sebbene la fruizione di questi sistemi sia divenuta intuitiva, la loro comprensione rimane in gran parte opaca. Le reti neurali operano attraverso modelli probabilistici e processi emergenti che sfuggono ai tradizionali schemi di causalità. In questo senso, l’AI in architettura potrebbe rappresenta un radicale cambio di modello rispetto alla progettazione convenzionale, mettendo in discussione l’assunto secondo cui la padronanza di uno strumento ne implichi necessariamente la piena intelligibilità. Questo fenomeno segna una svolta epistemologica senza precedenti: la progettazione architettonica, per secoli fondata su un principio di controllo e prevedibilità, si trova ora a confrontarsi con sistemi che funzionano su logiche di correlazione, anziché di deduzione lineare.
Dario Amodei, CEO di Anthropic, ha sintetizzato questa condizione con un’osservazione radicale: “Non c’è alcun motivo per cui i modelli di AI dovrebbero essere progettati affinché possiamo comprenderli. Sono progettati per operare, per funzionare. Proprio come il cervello umano o la biochimica: non sono fatti affinché un essere umano possa aprire un pannello, guardare dentro e capirne il funzionamento”. Questa affermazione sembra introdurre un elemento di discontinuità nella tradizione progettuale (e più in generale nel pensiero) occidentale, che ha sempre privilegiato la trasparenza metodologica e la possibilità di un controllo razionale sui processi generativi. Se il progresso tecnico si è fondato per secoli sulla comprensione analitica e sul controllo predittivo, l’intelligenza artificiale ci dimostra che l’efficacia operativa di un sistema può prescindere dalla trasparenza del suo funzionamento interno. Il progettista si trova dunque di fronte a una scelta epocale: accettare la complessità inaccessibile dell’AI come strumento di potenziamento creativo, o rimanere ancorato a modelli tradizionali in cui ogni scelta progettuale deve poter essere pienamente controllata.

Dalla logica alla correlazione
Uno degli aspetti di rottura dell’intelligenza artificiale è il passaggio da una logica deterministica e simbolica (if, then) a una basata sulla correlazione statistica. Tradizionalmente, l’informatica si è basata su sistemi logici in cui ogni operazione segue una sequenza di regole precise e comprensibili (l’algoritmo). L’AI, invece, costruisce modelli del mondo attraverso enormi insiemi di dati, individuando pattern e relazioni che non necessariamente corrispondono a un processo deduttivo lineare. Questo approccio ha profonde implicazioni sul modo in cui intendiamo la creatività, la progettazione e persino il concetto stesso di autorialità.
Nel campo dell’architettura e del design, l’AI introduce una nuova dimensione di esplorazione progettuale, in cui la capacità di generare configurazioni spaziali, strutturali e materiche non è più vincolata a un processo sequenziale, ma si sviluppa attraverso una molteplicità di iterazioni emergenti. Mentre un architetto tradizionale sviluppa un progetto basandosi su principi compositivi e vincoli strutturali ben definiti, un modello AI genera forme e configurazioni partendo da un’elaborazione probabilistica di migliaia di esempi pregressi.
La sfida risiede dunque nell’apprendere nuovi modi di interagire con la macchina, sfruttandone la capacità di esplorare territori insondati e di scardinare vecchi assunti: il progettista si trasforma così in un curatore di possibilità, un interprete che seleziona, affina e orienta il flusso creativo generato dall’intelligenza artificiale. In questa prospettiva, il progetto non è più solo il frutto di un atto di creazione, ma il risultato di un dialogo continuo tra intelligenza umana e artificiale, in cui le strutture, i materiali e gli spazi si sviluppano attraverso un processo di continua iterazione.

Verso un'architettura emergente: il parallelo con i processori progettati dall'AI
La progettazione architettonica potrebbe vivere una trasformazione radicale, trovando un parallelo significativo nel campo dell’ingegneria elettronica, dove l’intelligenza artificiale ha iniziato a progettare processori con layout innovativi e altamente efficienti. Questi processori, sviluppati attraverso modelli di deep learning, presentano configurazioni che sfidano la comprensione umana, ma offrono prestazioni superiori rispetto ai design convenzionali. Un esempio emblematico proviene da un team di ricercatori della Princeton University e dell’Indian Institute of Technology, che ha utilizzato l’AI per progettare chip wireless millimeter-wave (mm-Wave). Questi chip, fondamentali per le comunicazioni 5G, sono notoriamente complessi da progettare a causa delle esigenze di miniaturizzazione e delle elevate frequenze operative.
L’AI ha affrontato la progettazione come un problema inverso, specificando le prestazioni desiderate e lasciando all’algoritmo il compito di determinare la configurazione ottimale. Il risultato è stato un design con strutture apparentemente casuali, difficili da interpretare per gli ingegneri, ma che hanno mostrato prestazioni superiori rispetto ai design tradizionali.
Questo e altri esempi analoghi evidenziano come l’AI possa superare i limiti dell’intuizione umana nella progettazione, esplorando configurazioni che, pur sfuggendo a schemi consolidati, risultano altamente efficienti.
Questo fenomeno suggerisce una prospettiva inedita e affascinante: accogliere la complessità emergente dell’AI non come una minaccia alla comprensibilità, ma come un’opportunità per espandere i confini del possibile. In questo contesto, il ruolo del progettista si evolve a mediatore tra l’ingegno umano e le potenzialità esplorative delle macchine. L’architettura del futuro potrebbe così nascere da una simbiosi tra intelligenza umana e artificiale, ridefinendo il concetto stesso di creatività e problem-solving, aprendo la strada a innovazioni del tutto inedite e imprevedibili. Così come l’AI è in grado di ottimizzare il layout di un chip per migliorare prestazioni e consumi energetici, essa potrebbe definire la disposizione di spazi abitativi, infrastrutture urbane e reti impiantistiche secondo criteri di efficienza e sostenibilità.
Questa prospettiva introduce un nuovo approccio alla progettazione, ispirato ai sistemi biologici e informatici, dove le connessioni emergono da un’evoluzione iterativa anziché da una pianificazione gerarchica. L’intelligenza umana diventa così interprete di soluzioni emergenti, guidando l’AI verso risultati innovativi e funzionali. Il modello tradizionale, con fasi progettuali rigide, lascia spazio a un metodo più fluido, in cui AI e sensibilità umana si integrano per ampliare le possibilità espressive. Abbracciare questa evoluzione non significa rinunciare alla capacità di immaginare e plasmare il futuro, ma potenziarla, dando vita a un nuovo linguaggio del design in cui creatività e tecnologia si fondono in un equilibrio dinamico.