Prima conoscere, poi criticare
Giovanni Leoni

L'indagine qui presentata, che sarà perfezionata e costantemente aggiornata sul sito www.d-a.it, rappresenta pienamente lo spirito con cui è ri-nata, e sta sviluppando una propria ricerca, la rivista d'A.

Le lamentele riguardo alla marginalità della cultura architettonica italiana, che hanno dominato la discussione, pubblica e privata, di questi ultimi anni, sono oggi forse superate da una profonda crisi dei linguaggi internazionali rispetto ai quali, l'Italia, dovrebbe avere, appunto, un ruolo marginale. Parlare di periferia quando manca un centro è certo paradossale e, forse, non così utile. Ciò che appare attuale, necessario e, del resto, caratterizzante le più interessanti ricerche internazionali in corso, è invece un concentrarsi della architettura nuovamente sulla specificità della propria azione, sulla capacità di offrire, non tanto linguaggi universali e legittimanti, quanto risposte puntuali a partire da circostanze e condizioni locali, come è nella natura profonda della disciplina. E proprio perché la risposta a condizioni locali è insita e ineliminabile in ogni processo di costruzione della architettura, anche il più astratto, anche il più sbilanciato sul fronte del linguaggio puro e della raffigurazione, occorre pensare che ciò sia avvenuto, stia avvenendo, ovunque si faccia architettura, dunque anche in Italia.

In altre parole, l'architettura, volendo mantenere questo nobile termine per ogni atto di trasformazione dello spazio e di costruzione dei manufatti che servono all'uomo per occuparlo, accade costantemente. Ciò che oggi sembra urgente è un allargamento della conoscenza prima, della discussione poi, infine della azione critica e operativa, ad ambiti che non siano solamente quelli, pur affascinanti e importanti, della invenzione formale. In tale prospettiva, l'architettura italiana potrebbe forse accorgersi di avere, paradossalmente, una condizione di vantaggio. Un vantaggio di origine profonda, che le deriva da una ricca e non lontanissima tradizione di architettura capace di affrontare le straordinarie condizioni locali che il paesaggio e la ricchezza di beni artistici sempre impongono, ma anche un vantaggio più immediato, che consiste proprio nel non aver sviluppato, di recente, linguaggi architettonici affermati sul piano internazionale. Se culture architettoniche celebrate dalla critica, dalla spagnola alla portoghese alla olandese, richiedono atti di coraggio non piccoli a chi decida, al loro interno, di affrontare la crisi dei linguaggi per riconsiderare la reale efficacia della azione architettonica non tanto sulle riviste ma nella vita reale, in Italia c'è davvero poco a cui dover rinunciare.

Di contro, l'architettura che accade è, nel nostro paese, in uno stato di fibrillazione forse del tutto nuovo. Per anni parlare di crisi del progetto di architettura è stato un bel mestiere, riservato soprattutto a chi, di architetture, ne costruiva poche o nessuna, un mestiere che poteva portare alle piccole glorie di convegni e riviste o alla non disprezzabile vita del docente universitario lasciando la trasformazione della realtà agli altri, ai biechi professionisti, a geometri e ingegneri, alle perfide società di ingegneria, ai trinariciuti amministratori delle città. Oggi fare il docente universitario non è più una gran bella vita, il ruolo di maître a panser è ormai riservato a davvero poche, pochissime persone, e forse non è nemmeno nelle aspirazioni delle più giovani generazioni di architetti e critici, gli accademici hanno voglia di realtà, i professionisti e più in generale tutti i soggetti coinvolti nei processi reali di trasformazione, sembrano aver sempre più voglia di qualità, ovviamente fatte salve le leggi del mercato. Tutto ciò genera condizioni nuove, spesso incerte, in cui è difficile, se non impossibile o inutile, muoversi con i parametri di una scala di valori fissata a partire da giudizi puramente estetici e linguistici, tanto più se interni a una genealogia del Moderno messa in crisi dagli stessi, migliori suoi eredi.

Oggi sembra necessario prima di tutto, ben prima dell'esercizio di una azione critica, conoscere e comprendere ciò che sta accadendo, nelle scuole, nelle amministrazioni cittadine, nella professione, nella produzione, ovunque si compiano processi legati alla trasformazione dello spazio. Occorre una azione di natura storica, per quanto di "storia istantanea" secondo la definizione Jean Lacouture, ed è questa l'ambizione, il compito, assai più difficile di quanto possa apparire, che la rivista D'a si è proposto. Difficile perché esiste uno scarto forte tra l'architettura che accade e l'architettura riconosciuta come colta e degna di pubblicazione, uno scarto che, in aggiunta, corrisponde sempre meno a una netta e chiara distinzione di campo: da un lato l'architettura, erede più o meno felice di una precisa tradizione, dall'altro l'edilizia priva di qualità. Esistono infiniti territori grigi, sempre ammesso che l'architettura non sia tutta un territorio grigio, in cui domina un fenomeno ben descritto da Mies già nel 1926 con una analisi che oggi potremmo forse applicare ai linguaggi architettonici lasciatici dal secolo scorso: "La forma esteriore delle cose, la cristallizzazione dei processi vitali, continua a esistere e a esercitare la propria influenza molto tempo dopo che il suo nucleo fondamentale é ormai minato. Anche quando non se ne percepisce più il significato, si continuano a utilizzare queste forme; si continua a screditarle, allontanandole sempre più dalla loro precedente destinazione. Ciò che un tempo era un'altissima espressione di vita, gradualmente si deteriora nella banalità di un'applicazione priva di senso, se prima non si trova... la forza e la grandezza di dare una nuova espressione ai mutati contenuti della vita."

D'a si propone, quindi, di svolgere una doppia azione sulla condizione italiana: da un lato comprendere i destini dei diversi linguaggi, non solo quando tali linguaggi sono convincenti - altre riviste hanno l'autorità e i gradi di nobiltà per compiere una azione critica in tal senso - ma anche quando essi semplicemente hanno svolto o svolgono un ruolo significativo, positivo o negativo, nella architettura che accade; dall'altro cercare di cogliere, senza pregiudizi e con spirito di conoscenza, l'accadere della architettura in tutta la complessità dei suoi processi.


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