È il 24 settembre 1941, giovedì. Dal 19 Kyiv è occupata dalle forze naziste, e dal 20 esplodono ordigni in varie parti della città - forse per opera di partigiani ucraini, forse delle forze russe. Quel giorno una bomba colpisce il quartier generale della Retrovia sud. Il responsabile è ininfluente: il leader delle SS Friedrich Jeckeln sfrutta l’occasione per velocizzare l’epurazione degli ebrei in città. Più di trentamila ne vengono radunati nel corso dei successivi cinque giorni a Babyn Yar, una ravina ai margini nord-occidentali della città. Lì, nella notte tra martedì 29 e mercoledì 30, vengono tutti trucidati. A partire da quel giorno e fino al termine dell’occupazione delle forze dell’Asse, nel 1943, quasi centomila corpi vengono abbandonati in quell’avvallamento naturale. Oggi Babyn Yar si presenta come un grande parco, quieto nei pomeriggi popolati di famiglie e coppie. La memoria dei fatti di pochi decenni fa giace sotto le loro suole. Per riportarla alla luce, nasce nel 2020 la Babyn Yar Holocaust Memorial Foundation, grazie alla quale la municipalità di Kyiv avvia la progettazione di un Centro per la Memoria, composto da vari edifici. La sinagoga di Manuel Herz Architects si colloca all’interno di questo quadro di interventi. Due volumi di modeste dimensioni compongono il piccolo complesso della sinagoga: da un lato un seminario, dall’altro l’edificio di culto. I due sono legati strettamente dalla tradizione, perché la preghiera e lo studio sono normalmente funzioni gemelle che si raccolgono sotto lo stesso tetto. Tale dualità è anzi ben radicata anche nella storia dei luoghi di culto ebraici: inizialmente semplici stanze per pregare rivolti all’unico vero tempio di Gerusalemme, hanno solo dall’Ottocento preso le forme di templi anch’esse. In un senso, quindi, il complesso di Babyn Yar raccoglie e distingue le due vocazioni: da un lato la casa dell’uomo, dall’altro quella di dio.

Dal punto di vista progettuale è tuttavia più innovativo l’approccio usato per quest’ultima. Più che uno spazio, infatti, si configura come un tempo: l’architettura in sé, intesa come volume circoscritto ove si svolge la vita, non esiste se non in occasione delle cerimonie. In ogni altro momento la sinagoga è una scultura: un parallelepipedo ligneo cieco inaccessibile; un monolite di Kubrik. Non è però necessario un femore per deciderne la proprietà: esso appartiene alla sua comunità, che infatti, quando ha bisogno di professare la propria fede, non deve che aprirlo. Il cerimoniale collettivo della preghiera si collega quindi al rito dell’apertura dell’edificio, come un libro sacro in cui immergersi. Un edificio-libro non è altro, in realtà, che la trasposizione letterale del culto in atto. Gli ebrei si vedono comunemente attribuire l’appellativo di “popolo del libro” per il loro legame con la Torah. Dentro di essa si trova infatti non solo la narrazione mitologica del rapporto tra uomo e dio, ma soprattutto il racconto delle origini del loro popolo, del loro passaggio da schiavitù a libertà. La lettura di questo volume non risulta tuttavia facile. Le parti mobili e le parti fisse sfumano i confini tra la tecnologia e il simbolo, richiedendo ciascuna diverse chiavi di lettura. Si consideri il basamento: l’interfaccia con il terreno. Il valore sacrale del suolo su cui si trova richiede rispetto - rispetto tradotto letteralmente con il distacco della superficie costruita da quella naturale, e con l’impiego di fondazioni superficiali, per evitare scavi. Ma non solo: la sagoma della piastra basamentale è un quadrato, e non è un caso. Nella lettura numerologica del Talmud, infatti, il quattro è il numero della casa: i quattro lati identici di un confine. Il tema del confine - o del perimetro - assume poi una valenza particolare per il volume della sinagoga. Dal punto di vista fisico, quando è aperta in occasione delle cerimonie, la sinagoga si può considerare delimitata su solo due lati; il terzo è completamente mancante, il quarto in parte ostacolato dalla presenza da una sorta di balcone levatoio. Pare costruita secondo la tradizione del Sukkot, come una capanna provvisionale per sopravvivere al deserto.

Non è tuttavia davvero temporanea come struttura, e ce lo comunica l’imponenza dei due muri. Sono entrambi spessi più di un metro, uno fisso e uno mobile, ciascuno forato da un’apertura, e con nicchie che permettono di nasconderci vari elementi. Il lato fisso è quello rivolto a Gerusalemme. Al suo centro una nicchia in forma di abside ospita l’Aaron ha’Kodesh, dove viene conservata la Torah; sopra di essa una bifora evoca la sagoma delle tavole della legge. All’interno della nicchia, sollevandolo con un argano, si può riporre il Bimah, il palco per il rabbino. Il lato mobile ospita, oltre al meccanismo che ne consente il movimento, una scala nascosta che conduce a un balcone, il matroneo, riponibile dentro il pianerottolo dal quale vi si accede, in una nicchia in cui sta l’unica grande vetrata della parete. L’aggetto si poggia su una colonna sagomata a nodi e tacche secondo i numeri dell’amore (13), delle stelle (11), della circoncisione (8), e delle aperture del volto (7) identica a quella che sorregge il soffitto. La copertura infatti, quando dispiegata, si sorregge su un supporto verticale. Come per una capanna, o una tenda, il vero tetto è tuttavia il cielo, e per questo sulla superficie è dipinta una costellazione; nello specifico, quella della notte del 29 settembre 1941, in cui si verificava il massacro di Babyn Yar. La tradizione ebraica non permette decorazioni figurative: per questo sul soffitto e sulle pareti troviamo rappresentati motivi naturali, l’oroscopo, le quattro creature della visione di Ezechiele, e soprattutto numerose preghiere. Tra queste, una la più cara ai progettisti: una benedizione ai sogni tratta da una sinagoga del XVII secolo di Kyiv demolita dalle forze naziste. Una preghiera, un rito, per trasformare gli incubi truculenti di Babyn Yar nel sogno di una collettività rinata.

UN RITO PER BABYN YAR
La progettazione di un rito collettivo non è un compito semplice; una soluzione semplice, tuttavia, è spesso la più calzante in questi casi. Per la sinagoga di Babyn Yar, il rito nasce come conseguenza di una necessità: il luogo di culto è chiuso. È un muro alto otto metri, largo sei, spesso poco più di due. Come ci si può pregare all’interno? Segue: va aperto. E come si può aprire? L’accesso allo scrigno deve essere un gesto concreto, manuale, che ponga in contatto l’uomo e l’edificio: una manovella metallica su una superficie di quercia - quercia che, ci tiene a specificare il progettista, è più che centenaria per legarsi a ciò che era il mondo prima del massacro nazista e proviene dall’intera Ucraina per unire i popoli contro questa tragedia. È grazie a una riduzione meccanica che l’intera parete può essere messa in moto da una sola persona. Il movimento muscolare si trasmette dalla manovella all’interno del muro a un sistema di due ruote dentate, la prima più piccola e con meno denti, la seconda più grande e con più denti; quest’ultima mette poi in moto l’ingranaggio connesso al suolo. L’incastro fra le due ruote dentate è ciò che crea la riduzione: un po’ come accade per una bicicletta, la guarnitura più piccola, dove c’è il pedale, rapportata al pignone più grande, sulla ruota, ci permette di fare le salite più difficili. Una volta in moto, la parete viene mantenuta in movimento con un motore elettrico. Il movimento degli elementi interni è ancor più immediato: degli argani mossi da motori elettrici permettono di calare il Bimah e il matroneo. Diversa è la soluzione per il soffitto: una semplice catena collega il vertice mancante del quadrato della sinagoga alla parete fissa. Tale catena rimane tesa in entrambe le conformazioni - chiusa e aperta - e quando la parete mobile si apre, disegnando un arco di circonferenza, consente alla copertura di alzarsi per semplice trazione. Per aiutare con lo spostamento della copertura - la cui massa rende ancor più faticoso mettere in moto l’edificio - un contrappeso si nasconde nella parete fissa. La semplicità delle soluzioni dà luogo, dunque, a una serie di azioni nelle quali la collettività si può riconoscere, come preparatorie all’azione del culto e parte di un rituale che unisce nella preghiera.

 

Scheda progetto
Committente: Babyn Yar Holocaust Memorial Foundation
Creative director: Ilya Khrzhanovsky
Progettista: Manuel Herz Architects
Team: Manuel Herz, Maxim Gabai, Ben Olschner, Isabella Pagliuca, Angeliki Giannisi
Site supervision: Oleksandr Laptev
Engineering: Dmytro Pisarevaliy, Yaroslav Novitskiy
Project management: Oleksiy Makukhin
Ceiling painting: CiForma, Kyiv
Wall painting: Galina Andruschenko
General contractor: Budsok, Kyiv
Località: Ukraine, Kyiv, Babyn Yar
Committente: Babyn Yar Holocaust Memorial Foundation
Creative director: Ilya Khrzhanovsky
Project start: October 2020
Construction completion: May 2021
Superficie: ca. 150 sqm
Premi: Lighting (by Expolight) - Award of Excellence from the 39th Annual IALD International Lighting Design Awards
Photos: Iwan Baan

Arketipo 161, Culto, Dicembre 2022