Zurigo, Spiegelgasse 1, 1916. Da un sogno di Hugo Ball ed Emmy Hennings nasce il Cabaret Voltaire, dove nomi come Kandinskij, Klee, Arp, Apollinaire, Ernst, Tzara, Marinetti, si succedono a stretto giro in un vortice di rappresentazioni ed esposizioni che nel 1917 prende il nome di movimento Dada, o dadaismo. Poco dopo il Cabaret chiude, ma i personaggi che di tale movimento segneranno la storia, come Marcel Duchamp e Man Ray, si conoscono comunque in altri luoghi della città. Dada e Zurigo stringono un legame indissolubile. Non altrettanto forte è il legame tra Le Corbusier e la sua terra natìa, dove costruisce poche opere, e quasi solo in terre svizzero-francesi. Un unicum è però presente a Zurigo, in Höschgasse 8, di fronte al lago. È il Pavillon Le Corbusier, forse l’unica Gesamtkunstwerk (opera d’arte completa) dell’architetto: un museo di cui questi studia ogni scala di dettaglio, pensato per esporre le sue proprie opere scultoree e pittoriche; l’architetto è artefice di contenuto e contenitore. Viene voluto, ideato, finanziato da Heidi Weber e sorge nel 1967, postumo al progettista. Nel 2016 verrà spogliato dei suoi contenuti dalla stessa promotrice dell’opera, e poco più tardi, grazie alla città di Zurigo, che esporrà altri oggetti di collezioni private, riaprirà al pubblico. Quello stesso 2016, sulle coste del medesimo lago, viene trasferita “Eureka” di Jean Tinguely: la prima opera pubblica dell’artista, originariamente realizzata per l’Expo nazionale di Losanna del 1964. A volte associato al Nouveau Realisme - risposta europea alla Pop Art - Tinguely è a sua volta nato in Svizzera, e poco legato al suo paese. Una forte amicizia lo stringe però alla città di Zurigo: quella con Julius Baer, per il quale realizza nel 1981 il progetto di arredo interno per la sua Cafeteria zur Münz. Oggi quei candelabri sono sparsi per la città, a incuriosire coi loro misteriosi meccanismi l’osservatore.

Non sono le follie dadaiste o i bizzarri giochi meccanici di Tinguely il primo pensiero che corre alla mente quando si pensa a Zurigo, una delle più note città svizzere. Le Corbusier stesso è più spesso associato alla Francia che alla Confederazione Elvetica, sia per il nome che porta, sia per le molte opere lì realizzate. Eppure anche questi sono frammenti dell’anima del paese più neutrale - e forse neutro - al mondo. Bisogna pescare da quel colore e da quelle bizzarìe per comprendere Ballet Mécanique, le residenze realizzate da Manuel Herz per Katrin Bechtler nel 2018. Vanno scomposte nelle loro parti, nella loro materia generatrice, e quelle parti vanno poi ricomposte in un caleidoscopio, secondo i giochi e le prospettive dati da sovrapposizione e ricombinazione. A ogni tocco il risultato è diverso. A ogni passo si scopre un incastro differente. Una prima immagine che balena in questo gioco di luci e rimandi viene evocata dal nome, che si ricollega direttamente all’omonima pellicola di Fernand Legér del 1924. Sedici minuti deliranti in cui fotogrammi di oggetti meccanici e parti anatomiche, accomunate solo dalla plasticità del movimento, si susseguono su una dissonante composizione orchestrale e pienamente dadaista. Meccanica, movimento, gioco: questi i cardini su cui Legér impernia il suo ingresso nella scena del cinema sperimentale, e che tornano con forza anche in Tinguely. La caricatura, il mistero, ma soprattutto la mancanza di scopo sono le caratteristiche fondanti la ricerca dell’artista svizzero. Macchinari enormi e di incredibile complessità, il cui moto tuttavia non produce nulla se non sorpresa e meraviglia. Di questo fa tesoro la residenza di Manuel Herz - anche se conserva, suo malgrado, la funzione. Le Corbusier, d’altronde, è il seme e il germoglio del funzionalismo in Europa: una macchina per abitare può pur sbilanciarsi verso la macchina, ma non si può non abitare. “Suo malgrado”. Il Ballet Mécanique conserva una funzione, suo malgrado. Anche questo evoca un’immagine che fa parte dello stesso collage: un edificio in cui l’uso fa un passo indietro, l’architettura - intesa come spazio in cui si sviluppa la vita - si sposta sullo sfondo, e l’aspetto esterno risalta in primo piano. Una facciata che è gioco, che è colore, che è lo spirito dell’oggetto costruito, ma che soprattutto è meccanismo e movimento. Una mondana spiegazione di tale spostamento di significante dal nucleo all’epidermide viene portata anche dal New York Times.

Secondo quanto scrive Fred Bernstein, la promotrice, Katrin Bechtler, avrebbe pensato di costruire un edificio residenziale per aiutare il finanziamento del suo mecenatismo artistico - per poi investire, nella sola facciata, più di un milione di euro. Erano le residenze l’obiettivo, o veicolare un messaggio? Proprio dalla Bechtler proviene un altro elemento che si somma nel vorticoso caleidoscopio del Ballet. Una donna enigmatica, secretiva, che acquista grazie all’eredità che le viene dai genitori una villa novecentesca in riva al lago di Zurigo, la svuota, e la trasforma in una galleria d’arte sperimentale. Nel suo parco installa un giardino di delizie e di sciarade, e nel mezzo colloca un edificio che chiede a Manuel Herz di progettare, al posto di un secolare e nodoso albero immobile. Herz, zurighese d’adozione, ha carta bianca per disegnare un volume che accolga cinque appartamenti. Questi s’inventa un semplice cubo a cui si giunge da una passerella lignea; ma un cubo completamente diverso da quello della villa della Bechtler, e in totale dissonanza con la mediocrità plastica del circondario. L’incastro delle parti ci regala un’immagine nitida quanto sorprendente. Una casa che è l’acciaio che stride contro l’acciaio, modulandosi per comporre una sinfonia; un teatro fatto di maschere e costumi che a ogni atto vengono buttati via e cambiati; uno scherzo di purissima ingegneria, come vorrebbe il più formalista dei funzionalisti. In sintesi, nelle parole del suo ideatore, un edificio che “è completamente non svizzero, ma che potrebbe essere costruito solo in Svizzera”, e, probabilmente, solo a Zurigo. 

LA PLASTICITÀ DEL MOVIMENTO
Un macchinario in continuo caotico movimento - per estensione e compressione di pistoni idraulici, apertura e chiusura di paratie metalliche, rotazione di ruote dentate su cuscinetti a sfera - richiede un dialogo attento con le scelte formali di ciascun elemento, se vuole mantenere un senso globale di posatezza e ordine. Per tale ragione viene dato grande peso alla composizione della facciata. La porzione mobile è alta quanto i due primi piani del volume, e lo circonda su tutti e quattro i lati. Il terzo piano, richiamando in qualche modo ciò che avviene per la villa novecentesca a lato, è arretrato rispetto al perimetro per aprire gli interni verso spaziose terrazze. Ciascun fronte, per quanto riguarda i piani bassi, viene diviso in moduli rettangolari di diversa proporzione ma uguale trattamento. Ogni modulo è diviso in quattro settori triangolari di alluminio anodizzato color champagne, separati da fessure allineate con le due diagonali del rettangolo (anche se sfalsate) che al centro si congiungono in un varco più grande, smussando i vertici dei triangoli. I due settori laterali risultano più piccoli, mentre quello superiore e inferiore più grandi. A partire da questo principio omogeneo, sono definiti tre tipi di moduli. Il primo, corrispondente alle pareti opache, mantiene fissi i propri settori triangolari. Il secondo, con funzione di frangisole, si apre grazie a una serie di pistoni lungo i quattro lati della specchiatura, che è tuttavia fissa o limitata da una ringhiera. In variante a questa soluzione, il terzo e ultimo tipo permette l’uso del triangolo inferiore apribile come balcone, grazie a una ringhiera spostata a mano dal serramento alla fine dell’aggetto. A completare il disegno compare il colore. Ciascun triangolo, sul lato interno, viene dipinto con una diversa sfumatura delle campiture che si ritrovano nel Pavillon Le Corbusier: rosso, giallo, verde, blu. Non più fattore di ripetizione omogenea, si ricombinano nei moduli in modo unico, avvicinandosi più che altro a Jean Tinguely e alle fantasie di sua moglie, Niki de Sainte Phalle. 

Scheda progetto
Progettista: Manuel Herz Architects
Località: Zurich, Swizerland
Committente: Katrin Bechtler
Area: ca. 800 sqm
Completion: July 2017
Team: Stefan Schöch (project lead), Penny Alevizou
Client representative: Odinga Picenoni Hagen AG, Zürich
Construction management: Bühler & Oettli AG, Zürich
Structural engineers, facade: Dr. Lüchinger + Meyer Bauingenieure AG, Zürich
HVAC and sanitation planning: MAS Engineering GmbH, Glattbrugg
Building physics, acoustics: Gartenmann Engineering AG, Zürich
Raw construction: Jenny & Co AG, Ennenda, Glarus
Balcony facade: SFL Technologies, Stallhofen, Austria
Carpenter: Johann Rasshofer Schreinerei, Gmund, Deutschland
Metal construction: Schneebeli Metallbau, Zürich
Flooring: a1 Industrieböden, Zürich
Photos: Rasmus Hjortshoj, Laurian Ghinitoiu, Mike Bink

Arketipo 167, Involucri, settembre 2023