Intervista a cura di Alessandra Coppa

CASA PER TUTTI
Fino al 14 settembre 2008
Milano
   Intervista a cura di Alessandra Coppa

1° maggio 1933. La V Triennale apre al pubblico il suo nuovo Palazzo con una
mostra dedicata al tema dell'abitazione: l'architettura veniva mostrata in scala
reale, sotto forma di ambienti completamente arredati e di vere e proprie
abitazioni costruite nel giardino del Parco retrostante. Il tema è stato ripreso
dalle successive edizioni, fino all'VIII, la prima dopo la seconda guerra
mondiale. L'episodio più significativo sarà la costruzione del quartiere-modello
del QT8, sotto la regia di Piero Bottoni. La mostra "Casa per tutti", inaugurata
lo scorso 23 maggio (catalogo Electa), vuole riallacciarsi a questa tradizione,
rilanciandola alla luce della cultura contemporanea dell'abitare. Il messaggio
contiene l'invito esplicito agli architetti a tornare ad occuparsi di un tema
che è stato centrale nel periodo tra le due guerre e che è ritornato cruciale
nella attuale crisi della metropoli postmoderna. Negli ultimi decenni, a
giudicare dalla Biennali, dalle riviste e dai media, l'architettura d'autore si
è concentrata soprattutto su realizzazioni straordinarie che hanno consentito ai
loro progettisti di affermarsi nel sistema delle Archistar. Niente è stato
prodotto invece di significativo sul piano dell'housing e sulla comprensione di
come si siano modificati i bisogni urbani a seguito della frammentazione delle
società e dell'irruzione di soggetti estranei alle culture locali, come i flussi
delle emigrazioni. Abbiamo rivolto qualche domanda a Fulvio Irace curatore con
Carlos Sambricio dell'esposizione.

Qual è stata l'evoluzione del "tema dell'abitare" nelle mostre alla
Triennale?

La mostra "Casa per tutti" che ha un sottotitolo
significativo, "abitare la città globale", si inserisce nella tradizione di
ricerca tipologico-sociale della Triennale. Anche dal punto di vista espositivo
le costruzioni che noi faremo nel giardino della Triennale (con sei prototipi di
sei architetti diversi) vuol essere proprio un riallacciarsi esplicito a una
linea di continuità che la Triennale ha sviluppato dagli anni Trenta agli anni
Sessanta e che avevamo già evidenziato in maniera programmatica in una mostra
del 2005 che si chiamava "Le case della Triennale" curata da Graziella Tonon e
Leyla Ciagà. Quindi abbiamo voluto riprendere esplicitamente questo aspetto
ovviamente per una posizione non meramente archeologica ma perché volevamo
costruire con questa mostra una sorta di manifesto programmatico dell'agenda dei
temi dell'architettura del ventunesimo secolo. Il concept di fondo è un monito
rivolto all'architettura di tornare ad occuparsi delle radici sociali che ancora
oggi, nonostante i fenomeni dell'archi-scultura, rappresentano a nostro avviso
motivo d'essere del progetto di architettura come "governo della
trasformazione".

E' intenzionale il richiamo a una architettura più "etica" rispetto
ai modelli proposti dalle archistar che sembra anticipare gli intenti del
Congresso Internazionale degli Architetti di Torino, la mostra sulla
prefabbricazione al Moma e quello del Padiglione Italia della prossima
Biennale?
Proponiamo il riferimento all'etica, intendendo l'etica
non a discapito dell'estetica. Etica ed estetica devono convivere, perché è
chiaro che una pulsione estetica è connaturata all'idea stessa del progetto.
Tuttavia l'esagerazione di un progetto che ha sposato l'estetica abbandonando
ogni ragione non solo etica ma a volte anche funzionale, produce un'architettura
risolta puramente in termine di landmark. Si deve recuperare un diverso
significato dell'estetica rivolto verso la complessità e alle ragioni del
progetto.

Quali sono i nuovi standard abitativi?
Noi poniamo questo
problema: tra gli anni Venti e gli anni Trenta il Movimento moderno, il
razionalismo, ha scelto come tema privilegiato di lavoro, quasi esclusivo, il
tema della residenza, dell'abitazione. Questo sapere dell'abitazione ha
costruito delle teorie estetiche, sociali, funzionali, tecniche che si
riassumono nella famosa espressione dell'existenzminimum che voleva nelle parole
di Gropius, coniugare il lato spirituale delle esigenze dell'abitare con la
realtà del dato strutturale ed economico lagato ai temi dell'abitare di massa.
Allora da quel momento in poi il tema dello standard non ha più avuto un
significativo sviluppo nel senso che l'architettura è come se dalla seconda
ricostruzione in poi fosse progressivamente andata alla ricerca di un fuori
standard, nel senso che gli standard connotati come espressione di una
suddivisione della società in classi che oggi non sono più proponibili. Ci siamo
dunque posti anche questo problema: sarebbe possibile per noi oggi definire un
existenzminimum? E' una domanda aperta che noi abbiamo posto ai nostri
progettisti indicando uno standard abitativo minimo di 18/20 mq per cercare di
capire se anche in situazioni di emergenza questo standard abitativo imposto
possa soddisfare una serie di bisogni al di là che gli standard di produzione
consentono di fare. Poniamo questo come problema e come tema progettuale nella
convinzione anche che probabilmente non esistono degli standard sociali ma
esistono degli standard quantitativi che possono però essere incrociati
trasversalmente, nel senso che le esigenze di uno studente possono essere simili
a quelle di un emigrato. Forse si possono individuare degli standard
quantitativi in base a delle esigenze che devono essere visti in un ottica di
trasversalità, di transitorietà e di flessibilità.

L' "emergenza" deve essere inteso come un concetto
variabile?

Analogamente il concetto di emergenza noi l'abbiamo
inteso in un'accezione flessibile cioè le emergenze per catastrofi (terremoti,
maremoti...) ma le emergenze sono anche tutte quelle indicate come "l'emergenza
abitativa nella metropoli" in cui in sostanza si pone un problema che è antico
all'urbanizzazione di masse e di persone che si trasferiscono in città. Allora
mentre prima queste masse venivano inserite in termini di schemi di lavoro e di
professione che individuavano una classe operaia e impiegatizia, noi oggi non
abbiamo questa suddivisione ma abbiamo una grande frammentazione di gruppi che
hanno un temporaneo bisogno di abitare. Allora queste esigenze abitative
compongono un quadro variato al quale non è neanche giusto dare una risposta
unitaria. Questo l'abbiamo evidenziato parlando con la Croce Rossa e con Medici
senza frontiere che si misurano con i paesi ex coloniali e del terzo mondo
quando dicono il clima fa differenza le socialità fanno differenza, portare un
prefabbricato in Africa non ha senso, portare tecnologie che non possono essere
manipolate dai locali non ha senso, allora dobbiamo prevedere un piano di
recupero delle tecniche artigianali locali che magari non avrebbero senso in un
contesto industrializzato hanno invece un forte senso in quei luoghi. Le
soluzioni standardizzate non sono in realtà ragionevoli ma invece la situazione
è così complessa, in modo molto stimolante, che mette in gioco anche saperi
tradizionali legati alla manodopera delle mani nude che non hanno
attrezzi.
Faremo un workshop in Bovisa sull'uso delle tecniche tradizionali
dai bambu alla terra cruda, che sembrebbero anacronistiche dal nostro punto di
vista ma che sono molto ragionevoli invece viste in contesti completamente
diversi.

Quali sono le forme dell'abitare contemporaneo declinate nelle
sezioni della mostra?
La grande mappatura che noi proponiamo è
sostanzialmente il Micro e il Macro. Le due sperimentazioni più interessanti
sono sulle unità minime legate all'idea di flessibilità e mobilità che hanno una
valenza o urbana o territoriale fino ad arrivare alla casa abito del barbone,
alla casa di cartone. L'altra tendenza che abbiamo riscontrato è quella Macro
che riprende invece un'altra tradizione sviluppata già da Le Corbusier con le
Unité d'abitation o con il piano di Algeri e poi riprese dalle utopie degli anni
Sessanta dalle ricerche megastrutturali. Abbiamo casi clamorosi come i grandi
insiemi condominiali progettati da MVRDV a Madrid a Vienna e a Rotterdam oppure
Steven Holl in America, Koolhas a Singapore o a Dubai dove c'è l'idea di una
città non solo verticale ma che prevede sistemi tridimensionali complessi. Si
tratta della ripresa di un tema negato negli anni Ottanta, si veda ad esempio il
caso del Corviale, che ha una sua ragionevolezza che considera il territorio
come risorsa contro lo spreco degli spazi. Si pensi ai problemi delle grandi
metropoli cinesi. Qui si deve costruire su proporzioni gigantesche e allora la
bigness diventa una risposta al di là di ogni sentimentalismo a un problema che
non può trovare soluzione se non nella grande dimensione.

Casa per tutti
Triennale di Milano
Viale Alemagna
6
23 maggio -14 settembre
Orario: 10.30 -20.30, chiuso lunedì
www.triennale.it