Autorimessa e deposito per attrezzi agricoli a Timau
L'edificio è situato in un paese delle Alpi Carniche, al confine con l'Austria, un'isola linguistica in cui si parla un dialetto tedesco immutato dal 1300. E' una vallata che ha subito, nel dopoguerra, la violenza dei flussi e riflussi migratori e tutto ciò ha generato un contesto architettonico disarticolato e incoerente. Per progettare l'edificio è stato importante instaurare un dialogo e operare uno scambio meditato e complesso con tutti gli attori della costruzione. Ne è disceso che il risultato non poteva essere solo di ordine formale, ma frutto coerente di tale processo. Inoltre l'uso esclusivo del dettaglio industriale sarebbe stato scorretto e costoso dato il tema, di conseguenza si poteva attingere a modi del costruire più "vicini" adattandoli e adottandoli come strumento di misura. Una misura da esprimere nell'edificio e nel suo rapporto con l'ambiente naturale e costruito. La costruzione si manifesta perciò con i mezzi semplici dell'architettura rurale usandoli come strumenti primari ed evitando di realizzare un'operazione mimetica o nostalgica. Emergono le ombre profonde dei volumi in cemento armato e dei loro piani di copertura in legno. I tamponamenti dei locali di deposito, che devono essere fortemente areati, così come alcuni rivestimenti dei setti sono in questo materiale. Il legno è usato sempre a listelli, ma con piccole variazioni. Viene utilizzato, secondo una logica di riduzione al necessario, come griglia d'aerazione, per realizzare i portoni, i serramenti delle finestre, per proteggere il sistema di illuminazione o permettere l'alloggiamento degli attrezzi. La collocazione dell'edificio risolve la frattura del tessuto edilizio e produce un duplice risultato: rapportare la strada del paese a ciò che le è vicino, attraverso la scala che conduce agli orti, valorizzare ciò che è lontano, con la finestra che mette in cornice il bosco e permette di ricollocare degnamente la fontanella in ghisa. La presenza dell'acqua è la metafora del suo percorso di vita. Come dal monte s'infiltra nella roccia per divenire sorgente, così scivola dalla tettoia centrale al setto in alluminio, per sparire nella vasca in pietra alla base della seduta.
Abitazione e studio di un geologo a Paluzza
L'edificio sul quale è stato realizzato l'intervento di ampliamento e ristrutturazione è il risultato di tre distinti interventi succedutisi nel tempo e facilmente riconoscibili. Il nucleo centrale in pietra è costituito dalla struttura originaria di epoca ottocentesca mentre le parti laterali annesse, di recente realizzazione, costituiscono l'intervento eseguito dopo la totale demolizione di un fabbricato rurale. La demolizione ha causato la perdita del rapporto di continuità della struttura edilizia urbana che caratterizzava l'originario fronte storico. Intenzione del progetto è quella di sopperire a tale mancanza e rispondere ad un programma funzionale che prevede un uso più complesso del fabbricato esistente. Prima dell'intervento l'edificio si articolava su tre livelli con i locali di uso diurno al piano terra e le camere ai piani superiori. L'edificio ora è diviso in due unità edilizie grazie all'adeguamento degli ambienti interni, all'adozione di un nuovo ingresso al primo piano e alla costruzione del volume dello studio. Lo spazio di percorrenza della nuova scala è protetto da una pensilina la cui struttura è nascosta da un tavolato di legno di abete. Il vuoto generato dalla grande pensilina definisce un luogo di forte suggestione che si conclude con un piccolo patio dal quale proviene la luce che illumina gli ingressi. E' uno spazio che viene usato come una stanza all'aperto, anticamera dell'abitazione, memoria dei portici delle corti nelle vecchie case dei contadini di montagna. Il volume dello studio è caratterizzato dalla presenza di tre finestre ciascuna delle quali stabilisce un rapporto singolare con l' esterno. La finestra ad angolo inquadra gli orti e le cime delle montagne circostanti. La finestra orizzontale illumina con luce radente la parete opposta all'ingresso e "cattura" gli ultimi raggi solari prima del tramonto. L'impossibilità di collocare delle finestre sul lato opposto ed il desiderio dei committenti di trovare un luogo adatto per una collezione di piante alpine, ci ha suggerito di progettare il piccolo patio sul quale si apre l' ultima finestra.
La piazza di Trieste, 1999-2001
Il progetto nasce nel 1999 con la vincita di un concorso internazionale e il cantiere, inaugurato nel 2000, si è concluso nel 2001. La piazza di Trieste, come a Bordeaux o a Lisbona, consiste nella dilatazione dello spazio delle rive in una sacca e in un ripiego del fronte edificato della città rispetto all'acqua. La risistemazione non è quindi disgiunta da quella delle rive ma piuttosto si inscrive in una riorganizzazione del sistema dei camminamenti che le costeggiano. La piazza è poi il risultato del processo storico che l'allestimento vuole evidenziare, muovendosi dall'esame degli stadi successivi e degli elementi ordinatori, potenziando da un lato il carattere unitario e al tempo stesso tentando di rivelare l'eterogeneità del processo storico. Il carattere unitario è essenzialmente restituito dal nuovo rivestimento pavimentale, in pietra arenaria grigia - materiale di base per l'insieme delle pavimentazioni degli spazi pubblici che si trovano entro il perimetro di studio, siano essi le piazze, le strade, i marciapiedi o le rive - con un trattamento di superficie bulinato o fiammato e in pietra d'Aurisina bianca bocciardata - utilizzata per sottolineare, segnare e strutturare il disegno delle superfici. La spianata centrale è definita da una cornice in pietra d'Istria che ne rafforza l'immagine complessiva. All'interno di tale riquadro si individuano due zone, semplicemente e unicamente a partire dal senso di posa dei massicci in pietra: la parte più antica della piazza, sita davanti al municipio, è formata da listoni di lastre disposte a 45° a partire dall'asse centrale; la seconda zona evoca il piccolo giardino scomparso nel 1920 e soprattutto il sito dell'antico porto fortificato del Mandracchio. La pavimentazione di questa zona è costituita da un semplice tappeto punteggiato da una seminagione di cabochons squadrati in pietra d'Aurisina bianca, distanziati di circa 5 metri l'uno dall'altro. Ogni cabochon è provvisto al centro di un punto luminoso, formato da diodi elettroluminescenti blu. Il grande rettangolo bianco, steso come un tappeto sulla riva, unisce simbolicamente in un unico luogo i tre elementi monumentali commemorativi, ovvero collega i due piloni portabandiera alla scalinata che permette di accedere all'acqua e su cui si posa il gruppo scultoreo che celebra lo sbarco dei bersaglieri del 1918. Motivazioni Il progetto interviene in uno degli spazi più significativi della città . La difficoltà del tema è affrontata con sottile appropriatezza trovando una pertinente misura dell'intervento. Principi di figura e scelta dei materiali sono coerentemente disposti risolvendosi in soluzioni al contempo garbate e rigorose.
Credit fotografie: Alessandra Chemollo