Tutta l'architettura può essere descritta da una forma illuminata dalla luce, ma troppo spesso il progetto della luce si riduce al dimensionamento dei serramenti. Un concetto che sentiamo esprimere spesso, ma se così non fosse? La Daylight Design Phase, ovvere le scelte fondative del progetto della luce, deve avvenire all'inizio del processo progettuale, durante l'ideazione, per procedere in sinergia alla definizione della forma.
Da dove parte un progetto? Cento interlocutori diversi darebbero cento risposte diverse; e sarebbero risposte pronte, istintive, personali. Se la domanda invece fosse: “In quale momento del processo si considera la luce?” Possiamo immaginare perplessità e sospensione. Per rispondere, ognuno di noi deve chiedersi quale ruolo dà alla luce, nello spazio in cui è, che osserva o che progetta. E dato che la vista è il senso più sviluppato che abbiamo, dato che con essa entriamo immediatamente in relazione con l’ambiente, ecco che di nuovo la capacità di immaginare (nel suo significato più “visivo”) diventa lo strumento cardine del lavoro di un architetto. Non possiamo immaginare uno spazio senza immergerlo, mentalmente, in un campo luminoso. Ma possiamo immaginare di farlo con molte varianti di questa delicata relazione, e poi scegliere. È da lì che scaturiscono alcune delle decisioni più profonde e identitarie della storia dell’architettura. Può essere utile, a tal proposito, studiare i segnali e gli stimoli del campo visivo legati alla luce e sforzarci di darne un’interpretazione: è un ottimo esercizio, da fare con gli occhi e con la mente. Può iniziare una laboriosa e paziente ricerca, di tipo analitico, soprattutto per sottrazione: cominciare a togliere elementi (luce artificiale, arredi, colori, materiali, forme non essenziali) e valutare, in ogni passaggio, se un certo carattere ancora permane. Restano in sostanza le forme pure (facce, spigoli e vertici), le profondità, le inclinazioni. Rimane, soprattutto, la permeabilità dell’involucro al campo luminoso esterno. Luce e forma: tutta l’architettura può essere descritta, in fondo, usando questi due elementi. Pensiamo a Ronchamp, o al Pantheon; al Kunsthaus di Zumthor, alla Seashore Chapel dello studio Vector; a quanto l’identità di tali spazi (e di infiniti altri) si poggi su materia e luce, su contrasti netti o sfumature, leggerezza e pesantezza, dinamicità. Il resto (ornamenti e finiture), verrà da sé. Pensiamo, invece, alle tante case e ai tanti edifici funzionali realizzati quotidianamente e a quanto ci si allontani, nella prassi progettuale “ordinaria”, dalle opportunità che queste strategie offrono. Si potrebbe obiettare che un appartamento o un condominio, un’aula scolastica o un ufficio, non necessitano di un’attenzione alle forme tanto spinta quanto quella che troviamo negli edifici celebri. La mia controargomentazione sarebbe questa: il termine “composizione” non deve richiamare necessariamente una ricerca teorica o l’autorevolezza dell’accademia. Ogni volta che decidiamo quale sarà l’equilibrio delle forme e dei colori, in che modo si svilupperà lo spazio, quanto le funzioni saranno leggibili nel campo visivo, stiamo lavorando sulla composizione.
L’obiezione di prima allora può forse essere riformulata: trovare lo spazio per un ragionamento sulla luce in un progetto significa per forza compiere un gesto artistico? Significa spostare l’asticella verso una caratteristica non necessaria? Se provate a proporre a un committente comune forme ardite o materiali e colori bizzarri, potrebbe guardarvi con diffidenza. Provate, invece, a offrirgli un taglio di luce sul vano scala, una finestra in posizione radente sulla parete della doccia, una distribuzione delle aperture che risulti equilibrata e stimolante e che evidenzi forme e profondità, che faccia venir voglia di percorrere una rampa, di raggiungere la fine di un corridoio, di sedersi sul divano e osservare la zona giorno a doppia altezza, una sensazione di continuità con il paesaggio. Forse allora il senso della domanda si chiarirà, o meglio si chiarirà l’ambiguità sottostante, il retropensiero tossico: che la luce, in fondo, serva per solo illuminare. È in questa considerazione (che focalizza strumentalmente l’attenzione sul fenomeno fisico, scartando il senso più profondo dell’architettura, ovvero gli esseri umani che la osservano e la vivono) la differenza tra fare edilizia e progettare. Il momento in cui si determina l’illuminazione naturale c’è in un progetto. Troppo spesso però si colloca nel breve passaggio dedicato al dimensionamento dei serramenti: quella banale procedura che, pensando di inseguire la quantità, si affanna appresso a prassi approvative spesso fallimentari e superate. E se non fosse così? Se decidessimo che in ogni progetto ci si fermi davvero a pensare al rapporto tra spazio, vista, funzione e luce? Se questo diventasse passaggio di prammatica in ogni discussione di una tesi di laurea o di concorso, in ogni articolo che si occupi di un nuovo brillante progetto realizzato? Potremmo chiamarla, con espressione inglese, la “daylight design phase” (difficile trovare un’espressione analoga, sintetica, in italiano) e renderci conto che non possiamo davvero farne a meno, se vogliamo che gli edifici che costruiamo rappresentino un’adeguata sintesi tra bellezza, funzionalità ed efficienza. La sua collocazione ideale - viene da sé - è all’inizio di un progetto, durante i processi ideativi; laddove, per l’appunto, si immagina uno spazio immerso in un campo luminoso e ci si chiede “cosa si vuole che si veda alla fine”. Scivolando verso posizioni più radicali, si potrebbe sostenere che quella della luce naturale non sia una vera e propria fase, con il suo inizio e la sua conclusione all’interno dell’iter progettuale e approvativo, quanto una lettura di fondo da affiancare alla miriade di altre decisioni lungo tutto il percorso di progettazione. È comunque così nei fatti, dato che ogni piccola scelta che facciamo (che si tratti di modificare uno spessore, un materiale, aggiungere, togliere o spostare un elemento) avrà una ricaduta sul modo in cui l’architettura e il campo luminoso entreranno in relazione.
Pensare alla luce (anche se sullo sfondo), fin dalle scelte iniziali e fondative del processo progettuale, significa peraltro uscire da subito dall’automatismo astratto dei disegni tecnici per guadagnare carattere e personalità. Gli approcci possibili saranno tanti quante le personalità dei tecnici, ma molti si muoveranno su una stessa linea, i cui estremi possono essere identificati come:
1. una ricerca di continuità con l’ambiente esterno, soprattutto attraverso abbondanza di luce e ventilazione naturale;
2. la luce come elemento scenografico, ovvero tutti quei casi in cui (non necessariamente per l’intero progetto, ma anche solo per una stanza o un dettaglio) si lavora con la luce con lo scopo di caratterizzare e drammatizzare la percezione dello spazio.
Esempi del primo approccio sono tutte quelle realizzazioni il cui filo conduttore sia legato all’esigenza di profonda relazione e scambio con ciò che rimane fuori dal guscio. Non è un mistero che oggi si passa fino al 90% del tempo in ambienti chiusi, mentre la nostra fisiologia ci porterebbe a vivere all’aperto, sotto il cielo (un fenomeno ultimamente esacerbato dalla permanenza forzata in casa/ufficio dovuta alle restrizioni per il contenimento sanitario). Ebbene, una risposta che l’architettura potrebbe dare è proprio quella di tentare di riproporre il più possibile, negli spazi confinati, le condizioni che si troverebbero fuori, pur mitigate dall’esigenza di protezione e controllo ambientale interni. Si fa riferimento - prendendo spunto anche qui dalla capacità di sintesi anglofona - al motto: “Bring the outside in!”, caro alla cultura che invita a ribaltare il paradigma della chiusura.
Non solo grandi vetrate, quindi, ma anche un’attenzione alla possibilità che la vista raggiunga punti più distanti, tutto intorno, e alla distribuzione il più possibile uniforme e omogenea di aperture e sorgenti luminose (sulla “distribuzione di terzo livello” e la multidirezionalità abbiamo speso alcune parole fin dal numero di marzo). In questa fattispecie, le quantità contano: spazi che possano dirsi in rapporto con l’ambiente circostante si riconoscono per un FmLD almeno superiore al 4%; meglio ancora dal 7% in su. A partire comunque da un approvvigionamento sotto controllo (come dovrebbe essere in ogni progetto), ma senza curarsi troppo della quantità, sull’estremo opposto dell’asse si trova chi con la luce intenda giocare, alla ricerca delle sue più spiccate qualità espressive e plastiche, maneggiando sapientemente compressioni e dilatazioni, intensità e sfumature. Pensando l’architettura come “scultura abitata” (così la definiva Constantin Brâncus‚i), l’occhio qui è poco attento alla misurabilità analitico-scientifica, quanto piuttosto alla potenza scenografica della luce, la cui “densità” determini contrasti e gradienti ben precisi, interagendo con superfici e volumi. Sebbene il campo visivo sia oggetto di attenzione in entrambi i casi, è qui che spesso si immagina che il progetto sia/sarà osservato (e fotografato) da specifici punti di vista.
Non solo sono due approcci ugualmente validi, ma possono combinarsi in vario modo sotto le mani sapienti di un progettista preparato, tanto facendo prevalere un carattere sull’altro, quanto cercando un equilibrio tra i due. Questo, però, a condizione che nel processo progettuale trovi posto la Daylight Design Phase.