DIARIO
Elena Bruschi - Antonio
Esposito


 
La nostra storia di liberi
professionisti comincia con un dilemma, che ha accomunato un certo numero di
giovani architetti della nostra generazione a Milano, tra il prolungamento
indefinito dell'apprendistato e del lavoro alle dipendenze dei grandi studi di
architettura (nel caso nostro quello di Mario Bellini) e l'aspirazione al lavoro
autonomo, per mettersi alla prova in prima persona. Così all'inizio degli anni
Novanta abbiamo intrapreso un percorso accidentato, decidendo di partire dalla
marginalità della provincia meridionale.
La visione edulcorata che
contrapponeva una provincia ricca di possibilità alla città bloccata in un
sistema degenerato, si è presto rivelata troppo semplice e illusoria. Se oggi
normalmente ci troviamo a constatare la condizione marginale dell'architettura
nella cultura generale del nostro paese e dell'architetto nel mercato edilizio e
nel complesso sistema di decisioni che dirigono le trasformazioni urbane e
territoriali, dobbiamo ammettere che questo si verifica in misura ancora
maggiore nelle aree meridionali, dove predomina una cultura del progetto
frettolosa e appiattita sulle forme commerciali...
In questo panorama di
mutevolezza, di fluidità, di permissività, riteniamo che il bagaglio di sapere
coltivato nelle scuole italiane di architettura in cui si è formata la nostra
generazione, possa invece far valere la capacità di riflessione sui luoghi e
sulle storie che i luoghi conservano, la capacità di astrazione dai sedimenti
materiali del sapere e di attenzione ai contesti come espressione fisica delle
ragioni della realtà. Il progetto, sia pure con la limitatezza intrinseca
all'azione progettuale stessa, deve preoccuparsi dell'identità dei luoghi e
delle ragioni che ne hanno guidato le trasformazioni.
Spogliata della
sistematicità di certe teorie che nei decenni scorsi hanno occupato la scena
della ricerca italiana, questa sensibilità acquisita può tradursi più
semplicemente in un atteggiamento da assumere nei confronti del reale, tale che
il progetto sia in grado di riconoscerne le molte facce, le sue varie
articolazioni e rispondenze a logiche diverse, di ammettere la coesistenza di
diversi programmi di adesione al reale.
Eppure un tale atteggiamento, per
non cadere nel localismo, ovvero nel rischio di legittimare l'esistente come
unica ragione del progetto, deve essere in grado, allo stesso tempo, di
osservare i luoghi e le storie attraverso un'ottica orientata e per farlo ha
comunque bisogno di operare a partire da una sintesi a priori.