Teorie – Un edificio nella periferia torinese è al centro del dibattito proposto dallo studio Marc su architettura e qualità della vita

Corso Taranto, o “E7”, è una delle 24 aree individuate dal Comune di Torino quando, nel 1963, fu stabilito il finanziamento dei provvedimenti della legge 167, in materia di edilizia residenziale pubblica. Tra 1967 e 1969, assecondando l’immigrazione che stava portando la popolazione torinese a raddoppiare rispetto al primo dopoguerra, sorsero lungo Corso Taranto oltre 5000 vani per iniziativa dello Iacp (Istituto autonomo case popolari) e del Comune.

Il progetto degli anni '70
Si trattava soltanto dei due terzi del piano elaborato per la “E7”, ma quei 23 lotti portati a termine ospitavano già 6700 persone, 400 in più di quanto previsto per tutti i 32 lotti inizialmente progettati. Si determinò allora una densità abitativa ben superiore alle attese, in un’area fortemente periferica e quasi del tutto sprovvista di servizi. La formazione spontanea di Comitati Tecnici Amministrativi, l’organizzazione “politica” del quartiere tramite la sistematica elezione di capi-scala, le Commissioni popolari per i trasporti e il commercio, rappresentarono il risvolto più vitale e impegnato di questo disagio. In questo contesto sorse, tra 1973 e 1975 (su progetto del 1966), la casa di Corso Taranto 80, promossa dall’Incis, “Istituto nazionale casa impiegati statali”. Il programma era di ottanta appartamenti e numerosi ambienti comunitari, realizzati dai romani Pietro Barucci e Sara Rossi: il primo già assistente di Adalberto Libera e progettista del Tuscolano I a Roma (1950-51), la seconda allieva di Bruno Zevi.

Architettura di periferia
Perché la scelta di questo edificio per esprimere il nostro “codice genetico”? Mentre, nel 2000, la nostra esperienza professionale iniziava “dall’interno” dell’architettura e dalla piccola scala dei primi lavori, allo stesso tempo ci appassionavamo alla città, attraverso studi, esperienze didattiche, consulenze: della nostra (Torino) come di alcune metropoli emergenti (Hong Kong e Mumbai). Mentre nel 2006 aprivamo Marc, il nuovo studio, siamo rimasti impressionati da un edificio nella periferia nord di Torino: sfuggito del tutto al dibattito anche locale sull’architettura e sui quartieri di edilizia economica, colpisce per i volumi “fuori misura” rispetto alle proporzioni dell’usuale edilizia residenziale.

La struttura
Un edificio non noto, e non bello: dopo le prime esplorazioni ci è parso chiaro che poteva servirci per sviluppare alcune convinzioni, senza doverci necessariamente piacere. Ci è sembrato infatti che la costruzione nascondesse un “cuore” di grande valore: la sezione dell’edificio interpreta la tipologia (anche torinese) della casa a manica semplice con ballatoio, riuscendo però a fornire due affacci pieni, oltre a una terza aria su ballatoio, a ognuno dei numerosi appartamenti. Ciò attraverso un complesso sistema di incastri fra unità duplex e corridoi di distribuzione. Il tutto riducendo al minimo gli spazi di percorrenza: ottanta alloggi serviti da soli quattro corridoi (su 10 piani) e da un solo vano scala. È un sistema che sembra ispirato dal sofisticato modello ideato da Georges-Henry Pingusson per l’hotel Latitude 43 a Saint-Tropez, 1931-32.

Tra pubblico e privato
La scelta attuata in corso Taranto 80, in realtà, è soprattutto un modo di concentrare le occasioni di incontro e di relazione: sono state realizzate, ai vari piani, aree comuni dedicate a riunioni e feste, ai servizi di lavanderia, all’asilo (oggi non più in uso). Il sistema di un’unica anima pubblica per oltre 300 persone dona ancora oggi all’edificio una vitalità inaspettata: si riscontra nella compattezza e nell’organizzazione dei condomini e nel fatto che l’edificio (pur nato ai soli fini residenziali) ha generato varie forme di micro-imprenditorialità, ospitando ditte di servizi internet, una società medica, alcune attività artigianali.

È un piccolo sistema urbano che contrappone al degrado, alla tristezza e alla grave carenza di servizi del quartiere, un segnale di funzionamento e ottimismo. L’edificio rappresenta per noi un equilibrio singolare tra modelli disciplinari distanti: i progettisti romani, il modello francese, le radici locali (il ballatoio e il tetto a falde alla piemontese), ma anche la “leggenda”, riferita fieramente dagli abitanti, che il progettista fosse olandese.

Inoltre, Corso Taranto 80 ci interessa perché la sua conoscenza è avvenuta secondo i passaggi che abitualmente caratterizzano il nostro lavoro progettuale: l’inizio necessariamente soggettivo, poi la riflessione logica sul funzionamento e la ricerca di fattori che sappiano influenzare la qualità della vita. L’edificio ha sfatato la nostra paura che la scala dell’architettura possa risultare poco influente rispetto alle logiche della città, incapace di generare quella qualità dell’abitare, spesso affidata alla dimensione dell’interno.