Il metallo che attrae e tradisce l'architetto

Testo di Augusto Romano Burelli

I metalli sin dalla prima architettura greca vivevano nascosti all'interno dei muri e delle colonne, in forma di graffe o zanche, per impedire lo scorrimento tra i conci del tempio. Preziosi e protetti nelle profondità delle pareti, i metalli però non sono sfuggiti ai ladri che, come si vede in molti edifici, li hanno estratti con lo scalpello, facendo assumere ai muri quel caratteristico stile a fori, che fa ormai da ornamento al paesaggio delle rovine.

Prezioso, usato con parsimonia, occultato nei paramenti murari per secoli, il ferro, dopo la prima rivoluzione industriale, guadagnava finalmente la superficie del muro. Esso pretendeva di essere visibile e, raggiunta quella posizione, non poteva non imitare per un po' il legno a cui assomigliava di più per le caratteristiche di resistenza alle sollecitazioni statiche. Negli edifici con il telaio in facciata, il Fachwerk, il ferro ha accettato di sostituire il legno per divenire la gabbia sulla quale il laterizio e l'intonaco si incaricavano di tamponarne i vuoti per isolare e proteggere l'edificio. Questa posizione raggiunta non assicurò alle strutture in ferro il successo che ci si aspettava. Se escludiamo la bellissima struttura in acciaio della Biblioteca di St. Geneviève a Parigi (1850) di Henri Labrouste, il ferro fu risospinto all'interno delle murature, sepolto questa volta sotto forma di catene e di tiranti, per irrigidire le strutture verticali e quelle orizzontali 'voltate' degli edifici pubblici. L'acciaio però non isolava come il legno; si corrodeva con l'umidità, veniva lavorato con molta difficoltà, costava molto, ma soprattutto era molto più resistente del legno agli sforzi di trazione, compressione, flessione e taglio. Se costava di più, ne serviva molto di meno per costruire un edificio.
La sua resistenza ed i suoi costi di lavorazione consigliarono così gli ingegneri e gli architetti di usarlo solo in profili dalle forme e dimensioni fissate per sempre. Prendeva così piede in architettura l'uso di telai sottili dalle grandi luci, che provocarono nella tettonica dell'edificio uno shock da svuotamento della materia che dura tuttora. La struttura infatti si riduceva ad un sistema di aste sottili connesse da piccoli nodi, irrigidita da qualche elemento murario o da 'croci di Sant'Andrea' da far scomparire nei muri. È il tramonto della parete massiccia, plastica, modellabile, chiaroscurale. Questo svuotamento della materia, la cui applicazione estrema visibile è il conflitto tra il tetto piano a cassettoni di Mies van der Rohe nella Galleria Nazionale di Berlino e le otto aste che lo sostengono con un piccolo contatto in calotte sferiche di 16 centimetri di diametro, produsse una specie di rivoluzione nella tettonica dell'architettura.

Nei punti in cui si concentravano le sollecitazioni della fabbrica e che gli antichi cercavano di assorbire e dissolvere con l'introduzione di capitelli e di basi di colonna, ora si poteva far 'mancare la materia', come non ci fosse più alcun contatto tra trave e paraasta d'acciaio. La cerniera alla base della paraasta di Behrens nella Turbinenhalle di Berlino ne è un esempio memorabile, come memorabili sono i 'rivetti' di connessione delle piattabande dei pilastri e delle travi che misero in voga un motivo decorativo scomparso solo con le grandi saldatrici elettriche nel dopoguerra.

Il principio dello svuotamento della materia, operato dall'introduzione della tecnologia dell'acciaio negli edifici, provocò un inasprimento della tecnologia delle parti tamponanti il telaio, quella che dall'avvento delle strutture in acciaio in poi si chiamerà 'pelle protettiva' dell'edificio. Tale pelle è incaricata di occuparsi della protezione del metallo stesso e di correggere i suoi principali difetti: la corrosione, la bassa resistenza al fuoco, l'elasticità, e l'inflessione laterale.

Moltissimo di ciò che è accaduto all'architettura nell'ultimo secolo influenzandone il destino, è accaduto su questa pelle protettiva e dietro questa pelle protettiva. Si può avanzare inoltre la tesi che gran parte dell'architettura contemporanea può essere definita un'architettura di 'epidermidi da rivestimento'.

L'architetto è costretto infatti oggi a lavorare su spessori murari minimi, ma a conservare all'interno dell'edificio un clima costante per 6/7 mesi l'anno. Queste due costrizioni lo obbligano a ridurre in strati la facciata, impiegando materiali diversi ridotti in sottili fogli. Alcuni sono incoerenti e dalla dubbia durata: soprattutto quelli che hanno il compito di bloccare il freddo esterno di -15° assicurando un tepore interno di +25°. Lo strato esterno di solito in acciaio o in pietra o in vetro è la pelle che si vede, e che deve dare la sensazione di solidità e di durata, pur essendo staccata dagli altri strati ed appesa nel vuoto ad un distanza di almeno 15 cm dall'ossatura portante di acciaio. Questa epidermide però si muove, si dilata in modo diverso dalla struttura che nasconde, e noi sappiamo che l'acciaio è un ottimo conduttore del calore. È quindi necessario interporre tra la pelle e la struttura una seconda pelle isolante o pelle termica. È quasi come mettere le calze di lana alla struttura, provvedendo che esse rimangano sempre all'asciutto.

Le Corbusier si lamentava di avere una grande quantità di impianti che attraversavano il suo edificio, difficoltà, diceva lui, che il Palladio non ha mai avuto. Ma che cosa dovremmo dire noi oggi che lavoriamo con pareti di 4/5 strati? Chiediamoci ora quali valori estetici conferiva e conferisce l'acciaio all'opera di architettura, e come mai il suo successo è stato così tardivo e non clamoros Gli architetti hanno amato perdutamente la ghisa, che eliminava l'ossidazione, l'elasticità, l'inflessione laterale, e si lasciava plasmare in dettagli di fusione di grande bellezza. Essa poteva essere usata 'a vista' e la sua durabilità, senza alcuna manutenzione, era assoluta. La colonna in ghisa di Henselmann negli edifici della Stalinallee, comunica ancor'oggi una sensazione di eleganza e di essenzialità. La ghisa però portava con sé un'altra insidia: oltre alla difficile lavorabilità, essa aveva un'energia di frattura simile al vetro: era, in altre parole, pericolosamente fragile. Gli architetti poi si sono sempre lasciati attrarre dall'acciaio nudo, appena forgiato, splendente come una spada, anche se questo aspetto dura l'arco di una mattinata, perché subito lo splendore diviene opaco e una sottile patina inizia a ricoprirlo. Mies van der Rohe odiava le verniciature dal film troppo spesso, perché 'arrotondavano', anche se di poco, lo spigolo vivo delle piastre in acciaio. Egli pretese inoltre di formare i profili saldando piastre assieme dopo averle tagliate da grandi lastre. Mies inoltre odiava i profili di serie che l'estrusione arrotondava negli spigoli interni ed esterni delle IPE, HEB, HEA, U e L; difatti nei suoi edifici le strutture a vista hanno tutti gli spigoli taglienti. L'acciaio attrae e insieme tradisce l'architetto perché deve essere rivestito. I pilastri delle grandi torri, anche se in facciata, devono essere isolati dal fuoco e rivestiti da altre lamiere d'acciaio, per cui ciò che vediamo sembra ancora la struttura portante, ma ne è solo l'immagine riflessa ed ingrandita.

Una grande rivoluzione sta avvenendo in questi anni con l'introduzione massiccia nell'architettura dell'acciaio nobile o inossidabile. La riduzione improvvisa del suo costo, ma soprattutto la possibilità di saldarlo a piacere senza alterarne l'invulnerabilità all'ossidazione, lo hanno fatto divenire il metallo prediletto degli architetti. Ma l'acciaio inossidabile è conveniente ancora solo nei serramenti, nei corrimani, nei piccoli profili, mentre le grandi strutture rimarranno ancora a lungo ossidabili. Per capire meglio lo shock avvenuto nella concezione tettonica dell'edificio con l'avvento dell'acciaio, siamo costretti ad indagare l'alterazione subita dalla coppia di opposti: chiarezza costruttiva ed inganno costruttivo. Tale opposizione, presente nell'architettura sin dall'antichità, è divenuta molto fertile nell'architettura moderna perché ne riprende l'enigma, la sua mancanza di finitezza, la sua attrazione per il non completamente manifesto, il suo gioco nel confondere le parti sorreggenti con le parti sorrette nell'edificio.

Proviamo a darne ragione analizzando l'opera in cui l'inganno costruttivo diviene anche inganno semantico. Un tema ha occupato la mente di Mies van der Rohe nei suoi ultimi anni di vita: la costruzione di un tempio costruito completamente in acciaio. Egli sperimentò in vitro questo tema, qualunque fosse l'incarico che gli veniva affidato: gli uffici di rappresentanza di un famoso liquore, il lascito per una fondazione, una galleria nazionale di pittura. Su un grande podio in granito, a cui si accede da una scala laterale, egli costruì un tempio in acciaio a quattro facce, rigorosamente uguali, con le otto colonne su cui poggiano con un impercettibile contatto una pesante copertura in travi d'acciaio incrociate. Una parete di vetro chiude il naos del tempio, che quindi non è un vero naos soprattutto perché non nasconde nulla. L'edificio non ha un orientamento principale, né il portico periptero indica come accedervi e dove guardare. La concezione dell'organismo è assoluta, intransigente, lontana dalle preoccupazioni degli uomini: il tempio di un Dio che non è interessato più a loro ed alle loro vanità artistiche. Tutto è portato ad un'estrema tensione: estrema la tecnologia adottata, estremo il dispositivo statico, staticamente illogica la copertura, evanescenti gli appoggi, splendida la vuota cella. Mies van der Rohe con questo edificio completamente costruito in acciaio e vetro esaspera le tensioni dell'arte classica nel riproporre sulla crepidine di granito le colonne, le travi, i cassettoni, il tetto tutti in acciaio. L'idea che lo guida è chiara: per riportare in vita il mito classico del tempio, bisogna esasperarne i conflitti e non neutralizzarli, trasportando un ordine prima concepito per il legno, poi per la pietra, nelle grandi luci sospese dell'acciaio. Lo svolgimento costruttivo del tempio di Mies è suggello del trapasso dal regno delle necessità pratiche dell'architettura, sconvolte dalle nuove tecnologie, al regno delle necessità spirituali. Tale regno è contrassegnato in Mies esplicitamente dall'eliminazione della parola funzione e dalla sostituzione della parola forma con la parola spirito. Nel ritorno del 'vero non necessario', riscontriamo che l'imperativo: 'es soll so sein' (deve essere così) è etico, non politico o storico, né deciso da alcunché di esterno all'architettura. Il carattere enigmatico di quest'arte, cacciato dalla porta dal materialismo storico, è rientrato dalla finestra e si è reinstallato nell'opera. Ci ritorna in mente l'enigma della colonna di Costantino ad Istanbul, vero paradigma del problema della costruzione in acciaio oggi. Costruita per sostenere e rappresentare solo se stessa, la colonna si regge in piedi solo grazie alle cerchiature di metallo che le si avvinghiano attorno, poiché il suo porfido, più volte cotto dagli incendi della città, non ha più alcuna resistenza. Una colonna simile ho io riproposto nella grande piazza di Graz, per ricordare la città che fece da baluardo contro i turchi. La mia colonna si erge da questo antico suolo cristiano, chiusa in un'armatura di metallo; è il centro di una doppia pensilina in acciaio che assomiglia ad una macchina volante o ad un grande uccello. La colonna non pretende di ammonire alcuno di alcunché, come la triskeleia disegnata ai suoi piedi, che porta le tre parole fatali del pensiero filosofico e che denunciano ancor'oggi la crisi del pensiero sull'architettura: Zeit, Sorge, Sinnlosigkeit, e cioè tempo, dolorosa apprensione, perdita di senso.

Colonna in porfido rosso, Grazer Hauptplatz, R. Burelli

Colonna in porfido rosso, Grazer Hauptplatz, R. Burelli

Colonna di ghisa di H. Henselmann nella Stalinallee a Berlino

Colonna di ghisa di H. Henselmann nella Stalinallee a Berlino

Biblioteca di St. Geneviève a Parigi (1850), Henri Labrouste

Biblioteca di St. Geneviève a Parigi (1850), Henri Labrouste

Neue Nationalgalerie, Berlino, Mies van der Rohe

Neue Nationalgalerie, Berlino, Mies van der Rohe

Neue Nationalgalerie, Berlino, Mies van der Rohe

Neue Nationalgalerie, Berlino, Mies van der Rohe

Neue Nationalgalerie, Berlino, Mies van der Rohe

Neue Nationalgalerie, Berlino, Mies van der Rohe