ZAHA HADID
Intervista a Patrik Schumacher
a cura di Maurizio Meossi


 

Maurizio Meossi: Mi piacerebbe cominciare partendo dall'Italia. Dal 1998 avete vinto quattro concorsi in Italia e avete ricevuto commissioni da parte di numerosi privati: l'Italia sembra dimostrare un grande apprezzamento per il lavoro del vostro studio. Come architetto italiano non nascondo una certa sorpresa considerando che, negli ultimi 50 anni, il mio paese non si è mostrato particolarmente aperto nei confronti dell'architettura contemporanea. Cosa pensi dello stato dell'architettura contemporanea in Italia? C'è qualche architetto italiano del secolo scorso la cui opera ti stimola in maniera particolare?
Patrick Schumacher: Certamente. Ci sono alcuni grandi architetti in Italia e c'è stato un rafforzarsi del panorama architettonico negli anni Settanta da cui è emerso un notevole gruppo di professionisti di stampo internazionale. L'assenza di figure rilevanti negli anni Novanta può forse esser fatta risalire alla mancanza di spazio per emergere. Oggi mancano i personaggi chiave perchè chi era una figura di valore negli anni Settanta e Ottanta ha raggiunto e superato il proprio climax. Tuttavia, mi preme segnalare un architetto la cui opera si è protratta in maniera eclatante negli anni Novanta e  va sempre più rafforzandosi: Renzo Piano. Ho visto una retrospettiva su Renzo alcuni anni fa ed è veramente spettacolare, estremamente forte, una figura di livello internazionale.
Penso, comunque, ci sia una nuova generazione di architetti che sta venendo fuori e crescendo. So bene che ci sono molti architetti italiani, giovani e ambiziosi come te e altri, che hanno lavorato per noi; c'è un potenziale enorme in giro, e il livello di formazione e sofisticazione all'interno della cultura e del design italiani è molto elevato.

MM: Il progetto italiano dello studio Hadid attualmente più rilevante è il  MAXXI, il Museo delle Arti del XXI secolo a Roma, in fase di costruzione.  Cosa pensi di ciò che si è visto finora del cantiere?
PS: Quello che si è visto finora è molto promettente. Penso che sia molto forte, stupendo.


 

MM: Ci sono due termini che hai utilizzato diverse volte, nei tuoi scritti, a proposito del museo: «urban graft» ("innesto urbano", nda) e «quasi-urban field» ("campo semi-urbano", nda). Potresti spiegare i due concetti?
PS: L'obiettivo è avere un progetto che potremmo definire come una specie di progetto di "campo", ovvero una possibilità di sperimentare la spazialità dall'interno: ci si muove sempre all'interno di una sorta di cambiamento di campo, definito dalle sequenze lineari delle pareti e delle travi nervate di copertura. Oltre a questo, vi sono altre peculiarità, come il fluire continuo dello spazio, senza angoli: ogni angolo si traduce sempre in raccordo curvilineo. Stiamo cercando una sorta di compenetrazione, fusione tra spazio interno ed esterno, finalizzata al raggiungimento di un alto livello di complessità nella disposizione degli spazi interni: l'immagine esterna dell'edificio non è predominante, in particolare da Via Guido Reni, dove rimarranno i due edifici preesistenti.

MM: Il museo è un luogo che si deve scoprire...
PS: C'è un senso di scoperta, l'entrare in un "mondo" piuttosto che l'osservare un oggetto dall'esterno. Dall'esterno non leggi il progetto, ma un suo primo strato, intuisci una sua complessità stratigrafica ma apprezzi l'intera struttura organizzativa dello spazio soltanto muovendoti al suo interno. C'è una logica nel movimento, suggerita dalla serie di linee confluenti che si biforcano sopra di te. Ci sono momenti in cui lo spazio diventa molto tranquillo, ampio, come gli spazi della galleria espositiva con le sua mura lunghe e ondulate dove è possibile contemplare una collezione di opere, e poi ci sono zone in cui alcune di queste gallerie si avvicinano, si sovrappongono, diventano un movimento di connessione e penetrazione verticale, e lo si percepisce. Si ha la consapevolezza che quando lo spazio diviene molto articolato si ha la possibilità di cambiare livello e di orientarsi.
Ci sono alcune aperture dello spazio in cui la visuale è, per così dire, "multidirezionale". Lo spazio è interamente generato dalle pareti, dalla loro intersezione, dalla disposizione delle pareti espositive, a cui si integra poi la presenza di altri elementi che ne seguono la direzione, le profonde nervature (della copertura, nda) che quasi competono con le pareti stesse; pareti che a loro volta vengono talora tagliate, a definire ampi scorci tra i vari piani.

MM: A scala urbana, potrebbe essere letto come un diverso modo di interagire con il contesto? Mi sembra che il vostro obiettivo in termini di contestualità sia una relazione programmatica con la città, un tentativo di attivare in un modo nuovo una parte della città, pur mantenendo una relazione con la struttura della città stessa.
PS: Sì, sicuramente c'è collimazione tra aspetti programmatici e formali. Per prima cosa dobbiamo stabilire  il programma formale. E il programma formale è determinato dall'allineamento di due griglie divergenti. Per cui abbiamo queste direzioni conflittuali e c'è sempre un interesse, nell'architettura decostruttivista, a utilizzare condizioni di contesto conflittuali, allo scopo di penetrare nel sito e accrescerne la complessità.
Volevamo esprimere questo tipo di conflitto, ma allo stesso tempo abbiamo mediato le due direzioni con un moto sinuoso, da una direzione all'altra. Quindi, in un certo senso, stiamo integrando i due allineamenti urbani in modo armonico; la capacità di integrazione in una sorta di network complesso, seppure leggibile e orientabile, è il nostro intento, e credo siamo riusciti a raggiungerlo.
Questo tipo di bilanciamento, questo senso di complessità organica, non è disordine e disorientamento ma capacità di orientarsi all'interno di un campo più complesso.
Naturalmente si basa, dal punto di vista del programma urbano, sul fatto che nell'area ci saranno maggiori "eventi" funzionali rispetto ad ora. Stiamo realizzando un attrattore culturale all'interno del nostro sito, ma, al momento, non c'è ancora nulla di interessante, tale da giustificare l'intento di farne  non solo una destinazione finale, ma anche un percorso che conduca da un punto a un altro della città. L'Auditorium, il Parco della Musica, è già una attrattiva in tal senso, poi dovrebbe sorgere una scuola di architettura, dopodichè potrebbero aggiungersi magari gallerie d'arte, centri commerciali. Allora credo che saremo in grado di apprezzare ciò che il progetto sta definendo.


 

MM: Attivare una parte di città...
PS: ... è il ruolo urbano del progetto. Sarà più evidente dopo dieci anni rispetto, diciamo, al giorno dell'inaugurazione; o chissà, magari tra tre anni.

MM: Parlando dei materiali, perché il cemento armato?
PS: Penso che il cemento armato sia una materiale fantastico per creare uno spazio fluido, uno spazio capace di favorire la complessità di circolazione, pur riducendo la complessità dei dettagli.
È una questione di materialità ed espressione.
Inoltre, c'è una forte affinità fra il calcestruzzo e una certa forma plastica curvilinea, ed è la nostra ricerca, anche per il futuro. C'è una certa enfasi sui materiali continui, una preferenza rispetto ai materiali composti per elementi e moduli che riempiono la scena e, magari, distraggono dalla disposizione degli spazi.
Non siamo interessati all'espressionismo strutturale o all'ostentazione dei dettagli. In realtà siamo minimalisti riguardo ai dettagli; preferiamo la soppressione dei dettagli  a vantaggio dell'armonizzazione dello spazio e delle sue forme di organizzazione. Non è una ricerca di espressionismo strutturale.

MM: Qual è lo stato dell'arte degli altri progetti italiani?
PS: In linea con quanto detto finora, c'è la Stazione dei traghetti di Salerno. Si tratta di una struttura a forma di conchiglia in calcestruzzo. Segue uno schema semplice ed essenziale, in cui entrambe le rampe, in entrata e in uscita, evocano una traiettoria formale all'interno della copertura. Penso che ne verrà fuori un'altra stupenda costruzione in calcestruzzo. La progettazione è stata completata, adesso ci stiamo addentrando nella fase costruttiva.
Altri progetti sono la stazione ferroviaria di Napoli e il complesso residenziale di Firenze, in fase iniziale.
Per Napoli abbiamo ultimato il definitivo, e ora sono in atto i negoziati per passare alla fase esecutiva.

MM: In seguito al Pritzker Prize, Zaha è, senza alcun dubbio, entrata nel novero delle cosiddette "archistars". Nel corso di una recente intervista, Peter Eisenman ha affermato che  '"archistar" è una definizione puramente mediatica. Cosa ne pensi?
PS
: Non penso che sia un prodotto dei media. Penso che l'attenzione sul singolo sia, probabilmente, fuori luogo. Si tratta di persone che hanno dimostrato grande talento e ambizione. Hanno una particolare capacità nell'organizzare e gestire team, organizzazioni che sostengano la loro visione. Credo non si tratti di un prodotto dei media, se esistono studi e organizzazioni che competono per progetti di alto profilo in varie parti del mondo, laddove si richiedono soluzioni creative.
Tali organizzazioni sono come delle macchine, non eventi mediatici; nessuno può inserirsi individualmente e competere direttamente a quel livello. Ci sono naturalmente, all'interno delle organizzazioni, personalità di spicco, che hanno la capacità di vincere i concorsi, di portare contributi credibili. Ed è giusto che progetti complessi e ambiziosi mettano in  competizione un certo numero di architetti di rilievo. Non è sempre facile colpire nel segno con progetti di questo tipo. Sappiamo che c'è bisogno di questo tipo di struttura produttiva, questo tipo di agglomerato di persone di talento per essere in quel circo.
Naturalmente c'è, alla base, un atteggiamento di attenzione superficiale da parte dei mass media.

MM: Probabilmente, ti riferisci al fatto che l'attenzione dei media viene data alla persona principale, al "nome".
PS: Questo è l'aspetto artificiale, man mano che l'organizzazione si fa più grande. Ma, allo stesso tempo, queste organizzazioni non sarebbero ciò che sono senza figure di spicco. Sono grandi gruppi di persone abili e di talento, con la necessità di un'unica bandiera che le unisca e identifichi.