Progetti – Il Los Angeles County Museum of Art è caratterizzato da un rivestimento in un materiale classico, il travertino

Nell'epoca del “famolo strano”, o della kinky architecture, arriva finalmente dal Los Angeles County Museum of Art, per gli amici LACMA, una buona notizia. E la notizia è che proprio la progettazione dei musei, che per anni ci ha abituati alle più insipienti stravaganze, può ancora produrre risultati d'alto profilo ricorrendo, come in questo caso, a un impianto semplice, rilassato, normale, quasi “all'antica”. Del resto la kinkiness programmatica dell'arte contemporanea ha raggiunto livelli tali da sconsigliare il confronto. E allora saggiamente Renzo Piano non ci prova nemmeno a sfidare Jeff Koons & Friends on their own turf, e nel rifuggire ogni velleità esibizionistica e cicciolinesca, opta per un laconico, pirandelliano “così è (se vi pare)”. Forse, parte ha la componente calvinista dello studio parigino che ha seguito il lavoro, comunque sia, in quest'opera il Renzo Piano Building Workshop sembra insistere nel processo di decantazione del proprio linguaggio, secondo quanto già magistralmente certificato dalla torre del New York Times, il più bel progetto degli ultimi anni. O forse, a voler filosofeggiare, si potrebbe anche dire che, col passare degli anni, Renzo Piano stia diventando sempre più aristotelico e sempre meno platonico, ossia sempre più interessato alla sostanza della materia e sempre meno alle “ombre proiettate sulle pareti delle caverne”.

La valenza simbolica del travertino
I semplici volumi del LACMA non parlano la lingua di Cicerone né, tanto meno cercano allusioni al sublime fascino di Villa Adriana. Eppure il materiale che da quel luogo proviene, il travertino di Tivoli, introduce inevitabilmente il tema della memoria dell'antico. Questa pietra ha una valenza simbolica non da poco e implica una sfida ben più ardua di quella che si potrebbe ingaggiare con l'arte contemporanea. Per quanti secoli, luoghi ed edifici il travertino è stato usato e abusato? Pragmatiche, le cronache del progetto c'informano che l'idea del rivestimento lapideo sarebbe nata dalla pre-esistenza, nell'insieme museale, di un edificio anni '60, anch'esso rivestito di pietra. Tuttavia le grandi superfici così trattate pongono un problema, sfuggono alla definizione: sono o non sono muri? Ed è qui che scatta il “cosi è (se vi pare)”, dove la realtà è quel che sembra, ma nel contempo è altra cosa, affatto diversa. Le grandi pareti di travertino qui sono “muri-non-muri”, per via della sottile linea d'ombra prodotta da una quasi impercettibile risega che, alla base, stacca i volumi dal suolo.

La concezione del tempo di Renzo Piano
Il fatto che il rivestimento di pietra non poggi per terra, potrebbe anche essere inteso come onestà costruttiva, per dichiarare appunto il fatto che il travertino non porta, ma è portato. Quel che conta, però, è che qui la massa lapidea assume nell'insieme un valore plastico-simbolico preponderante, che allo stesso tempo avvalora e contraddice i principi della tettonica classica. Una parete di travertino, comunque sia fatta, non è una parete qualsiasi. In primo luogo perché nega drasticamente ogni possibilità all'effimero, quindi perché evoca un luogo e una storia che sono alle radici della civiltà occidentale. Il fatto poi d'essere realizzata negli Stati Uniti, nonché risolta costruttivamente con tecnologie contemporanee, accentua ancor più la volontà d'avvallare un'idea d'architettura capace d'espandersi nello spazio e nel tempo, come intendeva Gidion. In tal senso credo si possa definire Renzo Piano come l'”Ultimo dei Moderni”, proprio per questa sua fedeltà a un'idea progressiva della storia, come continua evoluzione ed eterno ritorno. Per lui il Moderno non è un “anti-Antico”, non rappresenta una frattura, una discontinuità culturale e temporale, bensì è la forma presente di quel che in futuro sarà antico e anzi in lui c'è la preoccupazione che ciò possa avvenire.

L'importanza della materia
Forse è anche per questo che negli ultimi progetti l'immagine del Beaubourg si stempera sempre più, come sempre più s'allentano le affinità delle origini con Archigram e con l'architettura inglese in genere, mentre emerge una sensibilità, appunto per la materia del costruito, che è sì molto italiana, ma anche molto segnata dall'esempio di Mies, di Khan, nonché del suo primo maestro Franco Albini. E mentre le mode del momento sciorinano rendering in cui gli edifici sembrano fatti di Pongo, Renzo Piano insiste nel presentare i suoi progetti attraverso rigorose immagini bidimensionali, proprio per far emergere l'essenziale potenza espressiva della materia di cui sono fatti. Ed è interessante notare come tanto più sofisticate sono le tecnologie costruttive e impiantistiche di cui dispone, tanto più archetipi sono i materiali che impiega. Così il ferro e l'acciaio cedono sempre più al legno, alla terra cotta, alla ceramica e soprattutto, come in questo caso, alla pietra.

Un edificio simile a una fabbrica
Mentre le piccole celebrità à la page cercano di tenere artificialmente in vita l'esangue mito del futuro armeggiando con astronavi e robot, Piano viaggia nel tempo e nello spazio riscoprendo il valore simbolico della materia costruttiva tradizionale. Ed è molto da maestro del moderno anche il virtuosismo di mettere tale materia in rappresentazione simbolica usandola sia in modo strutturale, come ad esempio negli arconi di pietra di Trani nella Chiesa di Padre Pio, sia come pelle, come nel presente caso del LACMA, ma anche come sulla copertura dell'Auditorium di Roma, in cui l'émbricatura a lastre di piombo rinvia alle tante cupole antiche, tra le quali, non ultima, quella del Pantheon. E proprio osservando la copertura del LACMA non si può non restare sorpresi del fatto che la ricerca sempre sofisticatissima sul modo più efficace per catturare e diffondere la luce zenitale, che è la cifra di tutti i progetti museali del Renzo Piano Building Workshop, qui trovi una forma quasi letteralmente desunta dall'archeologia industriale. Dopo le delicate “foglie” orientabili della Menil Collection di Houston, nonché dopo le più recenti “unghie” dei lucernari puntiformi sulla copertura dell'High Museum di Atlanta, qui la luce è catturata, seppur sempre mediante raffinati accorgimenti tecnologici, con la tradizionale copertura a shed dei vecchi edifici industriali. Del resto lo stesso Piano, intervistato sul progetto, ha spiegato d'aver concepito questo museo proprio come una fabbrica, come luogo di lavoro piuttosto neutro, a disposizione delle svariate e mutevoli forme dell'arte contemporanea. Ed è così che la modernità qui riscopre una sua sottile arte della memoria, ottenuta in controtendenza attraverso gesti sempre più contenuti e materiali sempre più antichi.