L'architettura in acciaio

Testo di Paolo Portoghesi

Paradossalmente le grandi conquiste della metallurgia, che pure segnano sulla terra il sorgere delle grandi civiltà, non hanno influenzato direttamente l'architettura e coincidono con il trionfo della pietra nel campo delle costruzioni monumentali. Il metallo gioca una parte assai modesta nella storia delle costruzioni fino alla metà del Settecento: ringhiere di balconi, cancellate, porte, rivestimenti di grandi coperture in piombo o in rame. Se si eccettuano le catene, nascoste o non, nel corpo murario e poste a contenere le spinte delle volte, il metallo è assente nelle strutture architettoniche fino al tardo Settecento.

L'inerzia, del resto, che caratterizza l'entrata del metallo nel regno dell'architettura non è venuta meno neanche con la rivoluzione industriale, anche perché l'invenzione del cemento armato ha realizzato un tipo di strutturalità più simile a quella tradizionale ed è servito da contraltare al carattere apparentemente 'antiarchitettonico' e provvisorio delle strutture metalliche.

È negli ultimi decenni del secolo che un'altra delle periodiche ondate di rilancio delle strutture metalliche sembra aver acquistato una forza decisiva, anche per la concreta alleanza tra acciaio e vetro strutturale, tanto da rendere probabile e forse prossima una vera e propria rivoluzione. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, se il risultato di questa rivoluzione sarà quello di mandare in soffitta i materiali tradizionali, simbolo della pesantezza, lasciando che si affermi una architettura di consumo, fragile perché provvisoria ma fiera della sua provvisorietà intesa come una prova di una modernità ormai preoccupata più di aderire alle necessità del mercato attuale che di assolvere al ruolo storico di mezzo di comunicazione tra uomini appartenenti a epoche diverse. Che l'obiettivo dell'architettura della leggerezza sia quello di stravincere è inscindibile dalla sua identità rivoluzionaria, ma spesso gli obiettivi divaricano dai risultati per ragioni che superano i domini disciplinari. Ciò che fa pensare che l'architettura della leggerezza possa venire a patti con gli archetipi della pesantezza e della durata è il fatto che la nostra società, all'alba di un secolo decisivo per le sorti dell'umanità, ha bisogno di compiere una svolta epocale nel senso di ridurre la conflittualità nei confronti della Terra, di puntare sulle risorse rinnovabili, di abbassare i livelli di inquinamento che minacciano la vita delle città, di far sì che i processi di mondializzazione privilegino il dialogo e la difesa delle differenze piuttosto che l'omologazione e l'appiattimento.

Pregio e limite della leggerezza è la tendenza a 'staccarsi dalla terra' e, quindi, dalla realtà dei luoghi. Questa vocazione 'celestiale' (che però raramente si è coniugata con il sacro, a parte la famosa chiesa di Garden Grove di Philip Johnson), tende a creare intorno ai monumenti dell'High Technology una condizione di attrazione totale che sembra escludere la possibilità di radicarsi in un luogo determinato e quindi di alimentarsi con `nutrimenti terrestri'. E tuttavia non è difficile percepire, nell'ondata lunga dell'architettura nata dalle nuove tecnologie, un bisogno di rinnovamento e di svolta che avviene significativamente attraverso un avvicinamento, sempre meno strumentale e arido, al mondo della natura. Nell'opera di Rogers, di Foster, di Piano, di Grimshaw, di Yeang si avvertono già i sintomi di un ancoraggio ad esigenze esterne al mondo autoreferenziale della tecnica edilizia e il tema della 'sostenibilità' e della cosiddetta biotecnologia si è rivelato l'ancoraggio più solido e condiviso. La tradizione analitica della modernità porta più a scomporre, nei modelli biologici i diversi aspetti del corpo vivente, lo scheletro, la carne, le reti circolatorie, la pelle, senza tentativi di sintesi che coniughino leggerezza e permanenza. In un libro uscito nel 1987 dal titolo accattivante: 'Sustainable Architecture', illustrando degli esempi concreti di progettazione urbana (uno dei quali, quello molto interessante per Shanghai, è firmato da Richard Rogers) Steele ha coraggiosamente elencato i materiali da costruzione oggi più diffusi dando a ciascuno una pagella nell'ottica della sostenibilità. Il risultato è drammatico: al primo posto come simbolo dello spreco di energia sta l'alluminio; ma anche il ferro e persino il cemento e il legno presentano problemi. Il materiale da costruzione che Steele non esamina per non rendere il quadro ancora più drammatico è la terra seccata e compressa che, percentualmente (unendo per un momento i due mondi, quello sviluppato e quello in via di sviluppo) è ancora il materiale da costruzione più diffuso sul pianeta Terra. Tenendo conto che questa tecnica non comporta alcun consumo di risorse non rinnovabili, appare chiaramente che è proprio lo spaventoso divario tra il modo di costruire dei paesi poveri e quello dei paesi ricchi a influenzare in modo decisivo il bilancio dei consumi, che vede il venti per cento della popolazione del pianeta responsabile del consumo dell'ottanta per cento delle sue risorse.

L'incontro tra l'architettura della leggerezza e il problema della sostenibilità è stato finora prevalentemente metaforico e la qualità ambientale un problema visto nella realtà parziale dell'edificio isolato nel contesto, isola felice o, piuttosto meglio, zattera galleggiante sul mare della insostenibilità. A non voler essere pessimisti il risveglio di interesse per la natura e la Terra, se accettiamo di vederla come un organismo capace di autocontrollarsi, potrà un giorno non lontano riannodare un legame tra l'universo celestiale della leggerezza e quello terrestre della massività. L'ancoraggio ai grandi problemi dell'equilibrio planetario potrebbe divenire anche un ancoraggio fisico, un collegamento architettonico che ripristini la coicidentia oppositorum, la dualità che, nella grande architettura di tutti i tempi è stata il prologo alla 'difficile unità'. In un periodo, gli ultimi quattro anni, che ha visto l'identità (e quindi la differenza) dell'architettura italiana vilipesa da un dirigismo culturale senza precedenti, che ha predicato l'omologazione e la resa incondizionata rispetto alle mode imperanti nel resto del mondo industrializzato, vale forse la pena di ricordare un importante tentativo di ancorare alla Terra delle strutture fatto da Giovanni Michelucci negli anni Settanta: parlo dei progetti per la copertura delle cave di Carrara e della sede del Monte dei Paschi di Colle Val d'Elsa, dove la struttura metallica affonda le sue radici nella terra attraverso la forza archetipica del muro. Povera di occasioni neglianni Ottanta e Novanta, l'architettura italiana aveva però al suo attivo il contributo teorico di grande spessore dato nella seconda metà del secolo scorso che la metteva in grado di affrontare i problemi del secolo nuovo non certo in distaccata autonomia rispetto alla cultura degli Stati Uniti e degli altri paesi europei, ma in una posizione rispettosa della sua identità. Se si è preferito aprire le porte a una sorta di colonizzazione assegnando un ruolo di ambasciatori del nuovo agli architetti italiani carichi di medaglie conquistate fuori casa, ciò non vuol dire che la sperata omologazione sia avvenuta. I problemi che all'architettura verranno posti dai bisogni e dai desideri del prossimo futuro imporranno alle vicende dell'architettura svolte in cui gli architetti italiani che riconoscono la propria tradizione nell'opera di Albini, di Gardella, di Michelucci, di Moretti, di Ridolfi, di Rogers, di Samonà, di Scarpa, potranno avere un ruolo prezioso: forse uno di questi problemi sarà proprio quello di ancorare la leggerezza e ridare alla tecnologia la perduta capacità di sintesi.

Chiesa Di Garden Grove, 1980, P. Johnson

Chiesa Di Garden Grove, 1980, P. Johnson

Sede della Banca Monte dei Paschi di Siena,Colle Val d'Elsa, 1973-83, G. Michelucci

Sede della Banca Monte dei Paschi di Siena,Colle Val d'Elsa, 1973-83, G. Michelucci