La storia dell’architettura è stata segnata spesso da trasformazioni improvvise, segnate da grandi passi avanti tecnologici - spesso inattesi. A metà del Quattrocento, nell’ambito di una tradizione architettonica ancora artigianale, Leon Battista Alberti introdusse un approccio matematico alla rappresentazione grafica. Così facendo, aprì la strada al classicismo rinascimentale: un’architettura basata sulla precisione del disegno, piuttosto che sulla produzione approssimativa degli artigiani. Quattro secoli dopo, acciaio e vetro permisero a ingegneri come Isambard Kingdom Brunel, Sir Joseph Paxton e Gustave Eiffel di concepire strutture audaci e innovative, spingendo oltre i limiti di ciò che era possibile costruire. Una generazione più tardi, nel pieno dell’era meccanica, Le Corbusier adottò gli strumenti e le forme della produzione di massa, dichiarando che “la casa è una macchina per abitare”.
L’architettura non veniva più ottimizzata solo dal punto di vista del design e dell’ingegneria, ma anche secondo logiche produttive e sociali, che si traducevano in nuovi canoni estetici. Si potrebbe dire che l’innovazione tecnologica è da sempre uno dei motori del progresso architettonico. Lo stesso Le Corbusier sognava di “realizzare, armonicamente, la città come espressione della nostra civiltà macchinista”. Tuttavia, negli ultimi decenni, la nostra civiltà è passata dalla macchina al mondo dell’informazione. Dagli anni Novanta in poi, la convergenza tra bit e atomi è stata probabilmente una delle forze più dirompenti nel cambiare le nostre vite - e di conseguenza nel porre nuove e pressanti istanze architettoniche e urbane.
L’intelligenza artificiale è oggi la protagonista principale di un fenomeno che, pur non essendo nuovo, rappresenta il risultato di un lungo processo di trasformazione del nostro modo di pensare, progettare e abitare lo spazio.
Fin dall’avvento del computer, molti progettisti hanno cercato di integrare strumenti digitali nel processo creativo. Pensiamo ai rivoluzionari progetti di Cedric Price o agli esperimenti guidati da dati e computazione portati avanti da Buckminster Fuller. L’AI rappresenta il naturale sviluppo di quella traiettoria ormai consolidata: permette di elaborare dati - è sempre importante ricordare che non esiste AI senza dati che ne alimentino i meccanismi di apprendimento - per affrontare meglio le sfide urbane.
Oggi, l’AI sta diventando uno strumento di uso comune, integrato sempre di più nella nostra quotidianità. Dal punto di vista tecnologico, possiamo paragonare la situazione attuale al cosiddetto “momento iPhone” del 2007. Così come il primo smartphone di Apple rese concreto il sogno dell’Internet of Things - l’Internet delle Cose - con il suo corollario di app e reazioni in tempo reale, il rilascio dei modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) alla fine del 2022 ha trasformato l’AI in una realtà onnipresente nelle nostre vite - e persino in un’ossessione giornalistica.
Come sta cambiando quindi il nostro modo di progettare, costruire e abitare in un’epoca di LLM sempre più potenti? Parafrasando Cedric Price, proviamo a chiederci: se l’AI è la risposta al futuro dell’architettura, qual è la domanda?
Spesso, quando usiamo questi strumenti, abbiamo la sensazione di trovarci di fronte a un ‘idiot savant’. Un sistema che sa tutto su tutti gli argomenti ma che non fa altro che rigurgitare con impressionante rapidità queste conoscenze. Tuttavia, di fronte alle domande ancora senza risposta - le più importanti, in fin dei conti! - resta del tutto spiazzato. Inoltre, è ben noto che l’AI si limiti a restituire ciò che ha avuto in pasto: se la si allena con i nostri pregiudizi, non farà altro che riprodurli. Un’ottima ricetta per la banalità - non certo per l’innovazione.
Provate a chiedere a un’AI di generare un cottage di legno immerso nella natura e vicino a un corso d’acqua. In pochi secondi otterrete una mirabile sintesi, per esempio, tra Fallingwater di Frank Lloyd Wright, Farnsworth House di Mies van der Rohe, con magari qualche tratto ispirato a una facciata in legno di Baumschlager Eberle o a un interno di Matteo Thun. E probabilmente infiniti altri riferimenti fusi insieme, al punto da diventare indistinguibili. Questo processo si chiama text-to-image (dal testo all’immagine), ma basteranno pochi anni e i giusti dataset per arrivare a quello che viene già previsto come text-to-BIM (dal testo al modello architettonico).
Questa tecnologia consentirebbe agli architetti di generare modelli 3D dettagliati - completi di specifiche costruttive, informazioni sulla sicurezza e altro - partendo da semplici descrizioni testuali. Il processo progettuale verrebbe completamente automatizzato. Sarà questa la “morte dell’architetto”? Certamente, alcuni aspetti della professione scompariranno - quelli più ripetitivi e basati sulla rielaborazione di idee preconfezionate. Ma ne rimarrà uno che nessuna AI potrà ancora intaccare, perché non appartiene a nessun dataset esistente: l’invenzione di ciò che ancora non è stato pensato. Almeno con gli strumenti odierni, non sarebbe pensabile che l’AI possa concepire una nuova Fallingwater o Farnsworth House.
Come scrisse il grande storico dell’architettura Bruno Zevi: “Gli artisti autentici, creatori di linguaggio, sono sempre pochissimi; attorno a loro vi è un gruppo di ‘letterati’, professionisti aggiornati che costruiscono correttamente, con un vago tocco d’ispirazione, ma in prosa, non in poesia. Poi segue la marea dei plagiari, tra i quali alcuni confondono il grande con il grossolano”. Ecco, l’AI potrà spazzare via i secondi e i terzi cui faceva riferimento Zevi. Ma - almeno per ora, e speriamo per sempre - non i primi.

Images: MIT Senseable City