Luciano Semerani


E' stato scritto che l'attitudine all'insegnamento dell'arte deriva da una in
qualche modo perversione "voyeuristica" che si realizza non tanto, o non solo,
in presenza del corpo nudo della modella, in triangolo con Maestro ed Allievo,
ma che ancor più si nasconde nell'attenzione trepida ad ogni sintomo di
risveglio creativo indotto, come in una fecondazione assistita,
dall'inseminamento delle idee e delle fantasie del Maestro nell'anima candida
dell'Allievo.
Io non condivido questa versione bassamente psicanalitica della
natura dell'insegnamento, anche se in parte spiega la resistenza, tra branchi
puzzolenti di giovinastri, di certi "accademici" frustrati.
La "Tecnica",
con la T maiuscola della Composizione, la Tecnica della Progettazione, esistono
e la possibilità di organizzarne la conoscenza è la sostanza
dell'insegnamento.
Ma, in essenza, l'insegnamento e lo studio necessitano di
una merce rara, l'onestà.
Insegnare, studiare, progettare sono esercizi
intellettuali, ovvero esercizi dell'intelligenza.
Certamente il piacere che
all'insegnamento e allo studio deriva dal lavoro del nostro computer naturale si
rafforza nell'interazione di due o più intelligenze, sentiamo che lavoriamo
all'unisono o perlomeno ci completiamo crescendo l'uno delle elaborazioni
dell'altro.
Alla fine, come dicono i matematici, "l'equazione è bella", cioè
chiara, e riscrive per un po' di tempo l'interpretazione del mondo. Ovviamente
le nostre equazioni non sono come quelle di Einstein capaci di rivoluzionare
l'idea del tempo e dello spazio. Ricordate quella di Ernesto N. Rogers? A = f
(b,u).
Ho avuto due maestri, Giuseppe Samonà ed Ernesto Nathan Rogers.
Pretendevano, oltre all'intelligenza, l'onestà intellettuale e su questa, e non
sulla felicità inventiva o sull'erudizione si stabiliva la discriminante tra i
veri allievi e gli altri. Obbligavano a riflettere sul senso delle cose. Ci
ponevano di fronte a problemi e domande difficili. Questo dava una dignità
diversa al nostro e al loro ruolo. Io condivido questa regola, certamente fuori
moda in questa epoca di arrivisti e voltagabbana. C'è un dovere primo per chi
pratica l'insegnamento e lo studio (che sono poi la stessa cosa): l'onestà
intellettuale.
Poi contano molto la passione e la curiosità.
Chi sfoglia
la collezione di "Phalaris", trova quanto sto dicendo, una concreta
esemplificazione.
Non penso che in quei due anni alla Fondazione Masieri e in
quel "Giornale d'Architettura" si sia condensata tutta la mia capacità di far
scuola. All'opposto sono sicuro che i miei migliori allievi li incontrerò a
novembre.
Voglio però concludere chiarendo che è questo che penso sia far
Scuola, una ricerca, una con-ricerca, un condividere per un tratto più o meno
lungo di tempo una passione, che deriva da patire, e se volete rimanda a
com-patire, e perseguire con tenacia un'ipotesi di lavoro.
Forse solo per
curiosità.