intervista – Il Premio Alessandro Manzoni alla Carriera, quest'anno, dopo Umberto Eco, Ermanno Olmi e Luca Ronconi, è stato assegnato il 4 novembre a Mario Botta, presso la Camera di Commercio di Lecco.

Il Premio alla Carriera si affianca al tradizionale premio lettarario, ma quali sono le affinità tra Botta e il Manzoni? Lo ha spiegato Matteo Collura, presidente della giuria: "perché Mario Botta è un architetto che con coerenza e capacità costruttiva straordinarie ha affrontato temi diversi, ma lo ha fatto mantenendo elementi ben riconoscibili e perfezionando un ragionamento sull'identità storica delle forme, dei luoghi, degli insediamenti e delle comunità. Per questi motivi riteniamo che Botta, proprio come l'autore dei Promessi Sposi, abbia saputo innovare il rapporto tra creazione e storia". La premiazione non è avvenuta di sera, come nelle altre edizioni, ma nel pomeriggio alle 16.30. Prima della cerimonia ufficiale Mario Botta ha tenuto una lezione agli studenti universitari del Politecnico lecchese; subito dopo ha inaugurato la mostra di incisioni di Giancarlo Vitali alla "Casa dei Costruttori Lecchesi", la sede di Ance Lecco, da lui realizzata.

Alessandra Coppa: Nel testo della motivazione si legge che l'attribuzione del Premio Manzoni alla carriera deve essere assegnato e un'importante personalità della cultura europea, ritenuto capace di raccogliere attraverso la sua opera gli insegnamenti del Manzoni. Mi sembra che il suo interesse verso il tema del rapporto tra Città europea e globalizzazione sia ben presente, oltre che nella sua opera, anche nel ciclo di conferenze Mare Nostrum presso l'Accademia di Mendrisio. In che modo la sua architettura è intesa come impegno culturale e come si rapporta alla identità cultura europea?
Mario Botta: Mi piacerebbe che il mio lavoro fosse come la motivazione! Un Premio nell'ambito delle amarezze del lavoro quotidiano, per me rappresenta una forma di consenso, un riconoscimento che fa sempre piacere. Questo in modo particolare, perché viene dal contesto, perché il Premio Manzoni alla Carriera mi lega alla cultura italiana e poi perché i precedenti, Eco, Olmi e Ronconi sono delle personalità che ho sempre ammirato. E' sempre difficile parlare di se stessi, riconoscere i propri meriti è per me imbarazzante. Sul mio impegno culturale europeo posso dire che l'architettura trasformando una condizione di natura in una condizione di cultura abbia un compito fondamentale: far sì che l'identità del proprio territorio si rafforzi attraverso il lavoro dell'uomo, attraverso la trasformazione. Una seconda osservazione è che in una società globalizzata come quella in cui noi viviamo, la ricerca della propria identità, delle proprie radici, passi necessariamente attraverso il senso di appartenenza al proprio territorio e quindi attraverso la riconoscibilità di un paesaggio e attaverso un mondo culturale di storie e di memorie che ci appartiene. Da questo punto di vista l'architettura deve essere testimone del nostro tempo, ma anche testimone del vissuto del tempo passato, delle radici, delle fonti, dei popoli estinti. Se questo credo sia il lavoro dell'architetto, è naturale che io debba testimoniare il mio tempo e la realtà della vecchia Europa.

A.C.: In che modo ha saputo innovare "il rapporto tra creazione e storia", o meglio generare un linguaggio archiettonico che si confronti dialetticamente con la storia?
M.B.: Attraverso mio mestiere, perché l'architettura lavora a gravità, si radica alla terra. Pensare che l'archittetura sia un espressione atratta di una cultura che ha solo i valori trasmessi dal virtuale per me è un errore. L'architettura porta con sè il senso di appartenenza a un suolo geografico che però non è solo fisico, porta valori anche di Memoria, della stratificazione, della durata.

A.C.: Ha già affrontato il rapporto fra architettura e letteratura nella costruzione del centro Dürrenmatt a Neuchatel, poi come presidente del Premio Campiello…
M.B.: C'è una contaminazione reale nella mia formazione tra archiettura e letteratura. Ho avuto degli innamoramenti verso la letteratura attraverso alcuni scrittori come Max Frisch, che tra l'altro era anche architetto, incontrato più volte a Zurigo. Poi ho avuto modo di conoscere Garcia Marquez a Zermatt durante tre giorni di discussione sulla cratività in cui mi sono avvicinato al suo mondo fantastico sudamericano. Poi ho avuto il privilegio di frequentare prima e di costruire poi il Centro Dürrenmatt a Neuchatel. In maniera tangente indiretta e senza un rapporto immediato di speculazione reciproca con l'architettura, senza forzature, la letteratura mi è passata vicino. Edoardo Sanguineti ha scritto poesie sul San Carlino e sulla casa Rotonda. Ha scritto moltissimo sul mio lavoro Giovanni Pozzi; era iconografo straordinario che frequentava il mio vecchio studio di via Lavizzari con il quale c'è stata una complicità tacita ma intensa tra il suo mondo letterario e la mia architettura. Sono stati questi personaggi che mi hanno nutrito con la letteratura, non come forma astratta ma attraverso le interpretazioni e l'attenzione che hanno avuto verso il mio mestiere.

A.C.: Ci parli delle sue realizzazioni architettoniche nei luoghi manzoniani, dalla sede dell'Ance a Lecco e alle parrochhiali di Sartirana e Seriate…
M.B.: Il mio mondo, nella sua macrostruttura, è quello mediterraneo, ma nel senso locale è la Lombardia. Il Resegone è per me un riferimento visivo fondamentale, perchè si confronta con l'Adda, con il piano orizzontale del lago, con le prealpi che precedono il grande piano della pianura padana, sono territori che mi appartengono. Da bambino la mia città era Como non era Lugano, andavo con mia madre al mercato. Da questo punto di vista con questi luoghi manzoniani ho sviluppato un rapporto di prossimità affettiva che forse mi ha lasciato una memoria forte della luce di questi paesaggi costruiti attraverso i piani orizzontali delle acque e le emergenze orografiche. In questo territorio si sono confrontate alcune mie architetture come la chiese di Seriate e Sartirana, due costruzioni interessanti che si innestano in un contesto fortmenete urbanizzato. Si trattava di rinnovare la tipologia attraverso un segno contemporaneo. L'idea è statta quella riprendere la forma delle vecchie cascine lombarde, l'idea del colore della terra cotta, di riproporre quel senso di protezione e di rifugio.

A.C.: Come si rapporta la "Casa dei Costruttori Lecchesi" con il territorio?
M.B.: Il contesto era quello degradato delle grandi strutture industriali. La scommessa è stata quella di incastonare questa struttura con l'arretramento in un grande prato verde e srmontarla con un tetto staccato. L'edificio, sia dallo spazio del giardino sia da quello delle terrazze, si proietta verso la grande dimensione delle montagne, verso il Resegone, sfuggendo alla realtà del posto per portarti verso l'apertura del paesaggio.