Museum of Fine Arts  

Località Avenida de los Hermanos Bou, calle Prim, Castellón
de la Plana, Valencia, Spagna
Committente Castellón Cultural
S.A.
Architetti Emilio Tuñón & Luis Moreno
Mansilla
Collaboratori Clara Moneo, Matilde Peralta, Andrés
Regueiro, María Linares, Santiago Hernán, Juan Carlos Corona, César Ávila,
Andrés Rojo, Félix Larragueta, David Nadal, Fernando García-Pino, Jaime Gimeno,
Katrien Vertenten, Gregory Peñate y Óscar F. Aguayo
Direzione
lavori
Emilio Tuñón, Luis Moreno Mansilla, Jaime Prior
Llombart
Progetto 1997
Realizzazione
Giugno 1998 - Dicembre 2000
Superficie lotto 7.060
m2
Superficie costruita 12.000 m2

Mentre gli edifici d'abitazione dell'isolato anteriore si distinguono per la
loro gestualità banale e riconoscibile, la parete grigia del museo, silenziosa e
assoluta, trasforma il piano dell'allineamento in un evento urbano. Dalla sua
severità "herreriana" emergono, parzialmente, soltanto le altezze e i volumi
contrapposti, che annunciano i lucernari della copertura.
Il materiale -
l'alluminio colato - ha la medesima nobiltà e indifferenza della roccia
granitica utilizzata durante il classicismo herreriano; un materiale scelto per
perfezione e qualità, dalla severità un po' brutale, ma in grado di fungere da
supporto di evidente e delicata raffinatezza.
Prima di raggiungere l'angolo,
percorrendo - immagino - il tracciato del vecchio collegio, l'edificio si svuota
per dare spazio ad una piazza, mentre il volume grigio gira, dando vita ad una
composizione moderna e razionalista, ingentilita da gesti "sotiani", quasi
inavvertiti, che risentono di una maniera comune, quasi il risultato di un
elegante e abitudinario vizio collettivo. Appena oltrepassata la soglia bastano
pochi passi per intuire che il tracciato dell'umile collegio ha ispirato un
ordine dimensionale dalle forme allungate e tranquille, che si stendono
lentamente in orizzontale, seguendo le imposizioni del grande e semplice
rettangolo del chiostro, spesso estraneo alle costruzioni
moderne.
All'interno la serena ossessione metallica tende a sfumare. Il
visitatore che attraversa la sala delle esposizioni o la riuscitissima
biblioteca, non indugia ad entrare in quell'importante volume che, simile ad un
immenso tempio castigliano o ad una gigantesca cassaforte metallica, racchiude
un tesoro e ne annuncia la presenza.
Il tesoro del museo si riflette in un
altro tesoro, quello della spazialità che lo circonda..
Il contenitore
diventa un tutt'uno con il contenuto e questo, col suo tocco antico e la sua
indifferenza, contribuisce a trasmettere al visitatore il piacere dell'edificio
nella sua completezza.
A questo punto, tutta la severità "herreriana" viene
meno: il cofano metallico e granitico lascia il posto all'enfasi del bianco, dei
colori e del legno, e l'opacità che non permetteva di avvertire nulla, oltre la
sua rigorosa e ferma custodia, si trasforma in trasparenza e permeabilità,
fingendo efficacemente d'esibire il tesoro tutto ad un tratto, seppure in realtà
lo svela solo per parti. Il visitatore viene trascinato in una lenta e cenobica
ascensione che, attraverso una vista diagonale, gli permette di abbracciare la
totalità dello spazio, dandogli l'illusione di trovarsi contemporaneamente in
più luoghi.
Scendere diventa difficile una volta raggiunto lo zenith; la luce
del Levante, mitigata ma vigorosa, filtra dai lucernari cubici e lo sguardo, che
può ora posarsi su un punto di vista e riposare pigramente, invita ad
appoggiarsi ad una delle balaustre per contemplare lo spazio che sale, da vicino
e da lontano, con i visitatori che lo percorrono.
Osservando le piante emerge
l'effetto di serena occupazione trasmesso dall'isolato, in cui razionalismo
radicale e architettura della tradizione si uniscono in nome di un patto
assoluto, senza frizioni ne concessioni.
Effettivamente la pianta trasmette
una serenità quasi balsamica, atemporale, chiara, senza alternative, generata da
un ordine claustrale tanto efficace quanto evidente. Le sezioni e i disegni
degli alzati ingannano, come quelli di Sota; non tutto è cosí leggero, chiaro,
senza sfumature.
I disegni trasudano lo sforzo della costruzione per
trasformare e addomesticare la materia, dando forma all'idea, che in essa rimane
impressa, ma il risultato è tutt'altro che immediato o semplice. Tutto il
cammino progettuale è lontano dall'essere immediato, semplice e ovvio, ma lo
sforzo che lo ha prodotto rimane impresso nella compattezza del materiale
esterno e si stempera nelle molteplici
e fortunate sfumature negli interni.
Fortunatamente l'edificio non concretizza le promesse degli alzati e delle
sezioni, ma si materializza molto più denso, molto meno ovvio, molto più brumoso
ed elaborato.
La domanda che ci poniamo a questo punto è se si tratti del
migliore edificio del secolo XX - cento anni - o del XXI - tre mesi.
Vi è in
esso una continuità moderna che lo avvicina agli anni eroici dominati dai grandi
geni che, con le loro cubiche bianche promesse, hanno fatto ombra sul mondo,
teorizzando paradisi da sogno, mai vissuti e rimasti da sempre nell'olimpo dei
desideri.
Si tratta di un museo razionalista, che non si vergogna di
utilizzare i mezzi dei nostri gloriosi antenati, ma che non è più bianco,
perché, come le cattedrali, ha scelto da subito, di rivestirsi di una patina
grigia, di una severità "herreriana" che non profetizza un futuro mondo felice
ma fa luce su un presente poco nitido, difficile, irrequieto.
Un edificio di
un classicismo moderno, in cui emergono evidenti i canoni di una architettura
che si ispira ad un linguaggio puro, inventato dagli dei e mai invecchiato,
portavoce dei principi di una architettura che non può invecchiare, se si è
capaci di vederla, ancora una volta, come se fosse stata appena inventata, o
addirittura come se fossimo stati noi stessi ad idearla, ignorando le sue regole
e scoprendo anzi che queste non esistono e che quindi non è poi tanto necessario
ricercarle per cogliere delle geometrie ancora vergini, delle forme appena nate,
dei dettagli inediti.
Oggi Castellón de la Plana ha una catedrale laica,
grigia, indifferente, nella sua monumentale semplicità, al fastidioso chiasso
della città. Una cattedrale che, come tutte le altre, custodisce un tesoro, in
senso sia materiale che spaziale. Una cattedrale silenziosa, quasi arida e
brutale, restia a manifestare il suo splendore interno, se non a chi non fosse
disposto ad accettarne il mutismo, a chi non avesse l'ardire di chiedersi se c'è
luce o meno dentro questo solido cofano, se c'è del grano in quel granaio, se
esiste vita in quella severa cassa di metallo.
Forse una cassaforte, forse
una cassa d'illusioni, questo suggeriscono la fede e l'istinto di colui che non
la confonde, di colui che sa vedere, oppure indovinare.

Testo di Antón Capitel
Estratto da Materia n. 40

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costruttivi e tecnologici

												Pianta piano interrato Sezione longitudinale
Prospetto Sezione trasversale Esploso assonometrico