Un argomento recente nella ricerca in ambito illuminotecnico, e nella mia in particolare, è l’individuazione dei nuovi CAM riferiti all’illuminazione naturale. Oltre a indentificare riferimenti autorevoli sui quali impostare i parametri e le soglie da imporre, ritengo importante sottolineare la necessità di affrontare il tema in modo specifico, e necessariamente differente, che si tratti di nuove costruzioni o di ristrutturazioni. La riduzione della libertà di manovra è molto variabile. Non si può imporre per legge il raggiungimento di un parametro uguale a quello relativo alla nuova costruzione, laddove questo richieda scelte che non è possibile compiere (come ad esempio, la forma dell’edificio o la tipologia strutturale). È giusto però che resti responsabilità del progettista preoccuparsi di fare il massimo per avvicinarsi a tale parametro (di comune accordo con la pubblica amministrazione), includendo nelle scelte architettoniche l’apertura di nuove finestre o la ricerca di una migliore distribuzione delle sorgenti luminose; oppure il ricorso al top-lighting (apertura di finestre su tetto e lucernari) e al core-lighting (utilizzo di pozzi di luce; svuotamento dei volumi troppo compatti; canalizzazione della luce). Quantomeno dovrebbe essere compito del professionista dimostrare se, nel caso specifico, non ci sia margine per raggiungere il valore stabilito e, dunque, rientrare in un altro regime autorizzativo o di certificazione. Esistono poi casi in cui l’involucro esterno è intoccabile (non c’è opportunità per nuove finestre sui fronti verticali né sulla copertura, non è permesso ingrandire le aperture che ci sono, né spostarle in posizioni più idonee); oppure, banalmente, non è oggetto dell’interesse contingente della committenza (l’incarico riguarda esclusivamente la ristrutturazione dell’interno di un appartamento in condominio). È questo il caso in cui il lavoro di un daylighting designer diventa più difficile, e a volte anche più stimolante: si tratta di rigovernare forme, volumi, superfici e distribuzione degli elementi alla ricerca dell’ottimizzazione del campo luminoso interno a partire da un involucro edilizio dato.

Si apre un mondo che richiederebbe molte più pagine per essere illustrato, ma che forse può essere contenuto in alcuni principi fondamentali:
- l’uso di vani scala, ballatoi e doppie altezze per condivisione del flusso luminoso;
- l’ottenimento di sorgenti luminose aggiuntive tramite continuità e trasparenza (moltiplicazione dello stimolo);
- la rimozione di ostacoli visivi e l’utilizzo di materiali chiari e arredi poco invasivi.
Siamo abituati a pensare gli interni come successione, tanto orizzontale quanto verticale, di stanze più o meno autonome e circoscritte. Ma è davvero sempre necessario? Le aperture dei vani scala, ad esempio, rappresentano singolarità: potenti punti di discontinuità all’interno di superfici altrimenti uniformi. Pozzi di luce e doppie altezze sono, di fatto, la stessa cosa, con la differenza che non associano a tale interruzione geometrica una funzione distributiva né l’aggiunta dell’elemento estetico-funzionale della scala: buchi/vuoti/assenze nei solai. Soprattutto, ciò che più ci interessa è che mettono in contatto spazi che hanno luminosità diverse. Nello specifico, di solito i piani superiori hanno più luce di quelli inferiori. La conclusione è automatica: i vani scala possono essere efficaci vettori di flusso luminoso da un piano all’altro, a condizione che le rampe non siano troppo chiuse e strette tra pareti. Le scale sono oggetti progettati e pensati per caratterizzare lo spazio in virtù della loro singolarità estetico-volumetrica unita all’indiscutibile valore funzionale (mirabile sintesi del concetto di architettura). Ma in moltissimi casi il loro disegno non passa per la severa verifica dell’inserimento in un campo luminoso, cosicché il loro potenziale resta inespresso: rampe di grande accuratezza in quanto a materiali, tecnologia e colore, rese buie o monotone dalla mancanza di coordinamento con le variazioni di intensità luminosa. Ciò che qui si vuole sottolineare è proprio il potenziale insito nella discontinuità del solaio in quanto momento di condivisione e circolazione del flusso luminoso, aspetti, ovviamente, strettamente legati.

Ogni volta che si decide di eliminare una porzione di superficie opaca, che sia verticale o orizzontale, si sta lasciando libera la luce di circolare tra un ambiente e l’altro. È una lettura concettuale e astratta della questione, schematizzabile facilmente con il disegno di piante e sezioni con frecce. Rileggendo lo stesso fenomeno in chiave sensoriale, ciò significa che alla porzione rimossa (con le sue caratteristiche di luminanza = intensità per l’occhio) ne sostituiamo un’altra con luminanza diversa, molto probabilmente maggiore da una parte e minore dall’altra (poiché la quantità di luce nei due ambienti connessi è raramente la stessa). Mentre la scala è un elemento con cui abbiamo più confidenza, dato che è soprattutto funzionale, l’idea di aprire fori o tagli nei tramezzi o nei solai, o anche il fatto di staccarli l’uno dall’altro o dai muri perimetrali, è un approccio raramente considerato in ambito illuminotecnico naturale. Ma funziona. In alcuni casi è una decisione che conduce a un aumento del FmLD o dell’illuminamento di un ambiente, dunque misurabile analiticamente. In altri casi, non è il motore quantitativo che ci induce a compiere il gesto, quanto piuttosto la diversa percezione in termini visivi: la differenza di luminanza che si ottiene tramite trasparenza o continuità corrisponde a un cambiamento nel campo visivo, a “qualcosa che accade in un punto in cui non accadrebbe nulla”, soprattutto a una moltiplicazione dello stimolo. La porzione rimossa può essere quella sommitale di un tramezzo oppure la testata di una parete nel suo incontro col muro perimetrale (staccando il tramezzo dalla sua naturale conclusione). In alcuni casi, il centro di un muro si apre per lasciar intravedere l’esistenza di un altro ambiente oltre quello dell’osservatore. Che ciò comporti un’espansione della prospettiva o la mera percezione-sensazione che “c’è qualcosa al di là”, il campo visivo risulterà comunque arricchito da un elemento nuovo, rivelato dalla differenza di luminanze.

La ristrutturazione, specialmente quando è necessario contare sulla sola luce disponibile a partire da un involucro edilizio non modificabile, può efficacemente contare su molte manifestazioni di questo strumento: superfici vetrate tra bagno e camera da letto, continuità tra soggiorno e corridoi, doppie altezze e svuotamento di solai nei punti meno coinvolti da finalità statiche o distributive, interruzioni e tagli tra le zone pranzo e cucina. Si tratta in fondo di lavorare per l’ottenimento di una “distribuzione di secondo livello” (vedi Arketipo numero n. 145, marzo), ovvero accendere una seconda sorgente nel campo visivo, senza coinvolgere l’involucro esterno. Il concetto di “open space” attinge a piene mani dalla dinamica appena illustrata, laddove la suddivisione di ambienti funzionali non comporti necessariamente la separazione fisica. Condizione perché il processo sia innescabile è che tale permeabilità sia compatibile con le diverse funzioni dello spazio; in ogni caso comunque, la sostituzione di porzioni opache delle superfici con altrettante lastre di vetro garantisce normalmente la separazione acustico/olfattiva necessaria in ambito non solo domestico, soprattutto se l’intervento è praticato in zone marginali rispetto al campo visivo (radenti al pavimento o al soffitto o in corrispondenza di spigoli verticali, ad esempio) o in posizioni che non consentano la vista diretta degli occupanti e delle funzioni in corso di svolgimento. Inoltre, non è un mistero che uno spazio costituito da ambienti di ridotte dimensioni può beneficiare di una maggiore permeabilità tra l’uno e l’altro: stanze non completamente chiuse da pareti vengono percepite come più grandi.
L’ultima risorsa nelle mani di un progettista illuminotecnico naturale non è altro che il ricorso alle variabili superficiali e agli arredi: usare colori chiari e optare per un mobilio leggero e poco invasivo riesce a dare una sensazione di maggiore ampiezza e luminosità. L’alto coefficiente di riflessione - o di rinvio, come viene a volte definito - permette alla luce proveniente dalle sorgenti esistenti di viaggiare più in profondità prima di essere assorbita e diminuire di intensità: i materiali chiari comportano gradienti più ampi.
Ovviamente ogni progetto di ristrutturazione è a sé e tutti implicano uno specifico grado di libertà, dal più versatile al più rigido: in ogni caso la disponibilità di più strumenti consente di individuare la soluzione ottimale, ricordando che al di là di un muro o di un solaio c’è sempre un campo luminoso in movimento.