Ricordo di Richard Rogers

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© ANSA/ LUCA ZENNARO

Richard Rogers è passato alla storia della architettura quarant’anni prima di morire, il 18 dicembre a 88 anni, dopo aver firmato con Piano, 1977, il centro Pompidou, un edificio alieno messo nel centro storico di Parigi, in un’area sgomberata, come un prodotto nuovo, di un linguaggio non conosciuto, senza riferimenti riconoscibili, ma naturalmente consonante con quegli anni. Rispondeva alla industrializzazione, alle nuove tecnologie, alle ricerche dell’arte, al desiderio di liberarsi della staticità del dopoguerra, di superare le “correnti” del postmodernismo, del neobrutalismo, che all’incontrario cercavano il contemporaneo ricorrendo alla storia, e oltre anche ai residui del movimento moderno. Siamo corsi tutti a vederlo con sorpresa, ammirazione, entusiasmo e la coscienza che da quell’opera non si poteva più prescindere, che era iniziata una nuova era: era l’inizio dell’hi-tech, come è stato subito definito il linguaggio.

Gli ideologismi critico-culturali potevano pensare a riferimenti a Paxton (1851), Eiffel, allo Chareau della Maison de Verre, alle strutture in CA di Rudolph e alle opere di Johnson (che aveva conosciuto bene negli USA), Frei, Fuller e forse Wachsmann, che sono solo componenti della sua formazione, come le tante opere di Wright che ha visitato. Dopo aver studiato a Londra e negli Usa è soprattutto partecipe e interprete della cultura inglese: i disegni degli Archigram, utopici, visionari, con forme innovative e sconosciute, una visione tecnologica della città, la mostra This is Tomorrow, 1956, alla Whitechapel gallery, con il manifesto del Gruppo 2 (Harrison, Mac Hale, Voelker) che dava nuove prospettive con una visione ottimistica del futuro, la musica dei Beatles e le molte esposizioni a Londra di Pollock, Rothko, De Kooning, Raushenberg, che andava a visitare e la pop art.

Londra, Millennium Dome, 1999 - © mattbuck - Creative Commons Wikimedia

Rogers ha colto che bisognava proporre nuove forme, che solo da una lettura diretta del presente poteva venire un progetto di futuro: ha elaborato questo personalmente in silenzio, manifestandosi con il risultato maturo, senza precedenti. Un segno di grandezza. Tutte le sue opere conseguenti, a Londra i Lloyd’s, la cupola del Millennium, la 122 Leadenhall street (con il suo ultimo studio al tredicesimo piano), a Bordeaux il tribunale, a Madrid l’aeroporto di Barajas, a Strasburgo la Corte europea dei diritti dell’uomo, a Berlino gli uffici a Potsdamer platz, e tante altre, in Italia il centro culturale a Scandicci e la mensa (poi uffici) della B&B a Novedrate, sono tutte immediatamente riconoscibili: il linguaggio dell’hi-tech che porta in vista ossatura dell’edificio, impianti, collegamenti verticali, lamiere, strutture in acciaio, grigliati, tiranti, ascensori, volumi tecnici, con forme rigorose, dal disegno inusuale, trasformati con una unica poetica del disegno, inimitabile, e tocchi di colore identificativi di elementi, accenti che siglano.

Bordeaux, Tribunale, 2005 - © Paolo Favole

Composizioni complesse, volumi a volte leggeri, a volte articolate macchine con una qualità formale e compositiva che le rende speciali, se non sempre dei capolavori. Gli eredi e imitatori, tra cui Johnson, Murphy, Jahn, e tanti altri, non lo hanno mai uguagliato. Coniugava il linguaggio, la concezione unitaria dell’opera, la ricerca del dettaglio, la semplicità degli elementi, la trasparenza, la qualità dei materiali, in modo unico. Questo ha distratto la critica dall’apprezzare la sua concezione dello spazio, interno ed esterno, pensato sempre di grandi dimensioni e unitario, con volumi molto empatici. Opere che sono nel moderno, indipendenti dalla storia e dal sito, legate molto attentamente alla funzione e alle persone che le utilizzeranno, per quel rispetto delle persone che gli è proprio.
Era una persona determinata, impegnato socialmente e con la prima moglie col laburismo, ma anche sorridente, scanzonato, un grande senso della famiglia, amante della musica lirica, della bellezza del mondo, tutto raccontato nel suo libro “Un posto per tutti”, sottotitolo “Vita, architettura e società giusta”, 2017. Un grande racconto della sua esperienza di architetto, dei primi lavori con Foster e le due mogli, il Team 4, i cinque figli, la sua bella casa con il soggiorno a doppia altezza, la vista di un parco, la genesi di tante opere, la sua concezione della città e della società: una lettura coinvolgente, una grande persona, che è stato un grande architetto.

Negli anni ‘80 a Londra in una mostra di tre opere di lui, Foster e Stirling, Foster ha esposto il plastico di un grattacielo sul Tamigi (non realizzato) un grande modello con una vasca d’acqua davanti: Rogers con in braccio un nipotino, come sempre sorridente e sornione, ha tirato fuori da una tasca un sacchetto e ha buttato dentro dei pesci rossi. Quanta poesia, amicizia, distacco, in quel gesto indimenticabile.
Sapeva che sarebbe passato alla storia, ma non lo ha mai esibito, ha continuato a lavorare a ogni nuovo incarico con la stessa voglia di ricerca dell’ossatura, dell’essenza strutturale del nuovo edificio, dei dettagli: lascia tanti disegni di opere ancora da realizzare e tanti di opere non realizzate. Dopo di lui l’architettura è andata in altre direzioni, che non ha seguito, perché rimane un protagonista ineguagliabile e coerente del suo modo di pensare, che rimane unico, un capitolo imprescindibile del contemporaneo, non solo in architettura: lo ricordiamo con tantissimo rimpianto.