Stone Garden è, tra gli edifici più recenti realizzati a Beirut, quello che a livello internazionale sta raccogliendo il maggiore interesse e curiosità, forse proprio perché, oltre alla qualità dell’architettura, sa dare una lettura originale e alternativa della città, della sua storia e della sua condizione attuale, fornendo vari spunti di riflessione. Con la sua plasticità monomaterica, con i suoi “strati”, è un progetto che vuole anche raccontare la storia degli abitanti, dell’arte, delle guerre e delle rivoluzioni di una città segnata dal suo, spesso tragico, passato. Lina Ghotmeh, nei dieci anni di lavoro che l’hanno portata a completare il progetto, ha qui voluto materializzare la percezione che ha della sua città natale, come “un’archeologia permanente”, distrutta e ricostruita molte volte nei secoli, che racconta in ogni angolo la storia dei suoi abitanti del passato e di oggi, con un paesaggio costruito attuale che riflette la sua storia più recente, costituito da complessi nuovissimi molte volte indifferenti al contesto che emergono tra edifici in rovina colonizzati dalla natura spontanea giustapposti alle residue case tradizionali con la finestra a trifora e le tegole rosse che resistono testimoniando ancora l’architettura originale di questa città mediterranea. Il progetto nasce dall’incontro tra la sua autrice e il fotografo Fouad El Khoury che aveva ereditato, con i suoi fratelli, un terreno dal padre, il noto architetto Pierre El Khoury. Il sito, ubicato a solo un chilometro di distanza dal porto commerciale - e quindi dall’esplosione dell’agosto 2020 - è in un’area della città a forte pendenza, in un contesto ancora povero e popolare, caratterizzato da costruzioni basse da cui spicca alta la recente torre Plot #450 di Bernard Khoury/DW5. Tale terreno ereditato, da cui oggi emerge Stone Garden, ha anche una storia affettiva e simbolica poiché non solo ospitava lo studio di progettazione di Pierre El Khoury in cui nacquero alcuni degli edifici più interessanti della architettura modernista di Beirut, ma anche il primo cementificio del Libano, grazie a cui si rese disponibile facilmente quel materiale, diventato rapidamente predominante nel Paese, che segnò e permise la rapida trasformazione della città in quei decenni. Partendo dalle radici di questo contesto, proprio la matericità del calcestruzzo e della terra sono stati tra gli elementi che hanno permesso di raggiungere l’obiettivo progettuale di far emergere nel quartiere una forma architettonica frutto di una lettura “sensibile” di una città in perenne lotta con un costante disordine e con le ferite che la segnano.

Ghotmeh, partendo dai suoi ricordi personali e dal suo rapporto con la città, iniziò il processo raccogliendo molto materiale di studio, ben documentato anche nella sua installazione per la 17a Biennale di Venezia, con immagini affascinanti e ricerche tra gli altri di Gilbert Hage, Ali Cherri, Nadim Asfar e Gregory Buchakjian. Tali studi le permisero di leggere e cogliere le molte istanze di guerra che ancora solcano la città, ma anche di razionalizzare l’attaccamento “viscerale” e le sue sensazioni inconsce verso questi luoghi di nascita poi abbandonati, facendole cercare una via progettuale per cogliere dallo spirito della città la via per trasformare anche gli eventi traumatici in un’opportunità creativa, dando forma costruita a una scultura urbana che mostra la “capacità dell’architettura di agire come uno strumento di guarigione e attore attivo nella costruzione della resilienza in tempi di crisi”. Da tale percorso è nata una torre amorfa monomaterica che sa tradurre in modo originale il volume generato dalla regolamentazione urbana (quel gabarit di cui si è parlato anche in altre occasioni), segnandolo con aperture che fanno eco alle già citate rovine degli edifici della città invasi dalla natura spontanea. Abitate da alberi e giardini, tali finestre invitano la natura a salire verso il cielo di Beirut, con una varietà di dimensioni differenti ai vari livelli, manifestando in modo persistente e ottimistico l’emergere della vita e offrendo al contempo molteplici inquadrature dall’interno verso il mare e la memoria costruita della città. Come già accennato, Stone Garden si trova su un sito scosceso, vincolo che è stato tradotto in una interessante moltiplicazione degli accessi su livelli differenti. Il piano terra inferiore ospita l’atrio principale dell’edificio e alcuni parcheggi. Al piano immediatamente superiore, accessibile direttamente dalla strada inclinata, vi è il Mina Image Centre, una piattaforma d’arte dedicata all’immagine, alla fotografia, al dibattito e alla riflessione sul Medio Oriente, che si articola su due livelli. Il terzo piano invita le persone che arrivano dall’area sud della città rivolta verso il centro, a entrare nell’edificio. I nove piani superiori accolgono appartamenti con tagli differenti. Ed è proprio anche nelle piante degli alloggi che si coglie ulteriormente la plasticità di questa massa amorfa scolpita, terrea e monomaterica, che ha voluto sfidare i tanti appartamenti anonimi replicati che si vedono in molte architetture recenti della città, immaginando invece ogni piano in modo autonomo e differente, disegnando spazi abitativi sempre diversi caratterizzati per l’appunto dalle già citate aperture, “finestre di vita”, che con piante e giardini punteggiano la pelle di Stone Garden. La forma allungata del lotto ha portato a un’organizzazione lineare degli ambienti, con una interessante successione di spazi connessi e aperture su più fronti. La zona giorno ha una disposizione rivolta a nord, a privilegiare la vista verso il mare, con una scelta non scontata, fortemente ragionata, che è stata consentita dalla mitezza del clima di Beirut, la forte luce naturale riflessa indiretta che caratterizza l’area del porto, nonché la volontà di una maggiore protezione delle vetrate dall’intensa radiazione solare mediterranea.

Il rivestimento dell’edificio, così caratteristico e disegnato su misura, vuole anche essere una celebrazione al ruolo dell’artigianalità e delle mani che, insieme alla ricerca sui materiali e alle tecniche costruttive, sono ancora un aspetto fondamentale per la realizzazione di architetture di qualità. Il materiale, in terra e cemento, “pettinato” manualmente da chi ha costruito l’edificio, è un messaggio immediatamente leggibile di “umanità”, nonché un’ulteriore forma di memoria tangibile del lavoro delle tante persone che lo hanno realizzato. Stone Garden ha resistito all’esplosione che ha distrutto tanti luoghi ed edifici di Beirut. La sua massa, la sua pelle di calcestruzzo e terra, le sue finestre misurate, hanno fatto efficacemente da scudo riparando i suoi abitanti e anche gli edifici vicini, in modo sorprendente pensando che si trova proprio nel luogo di maggiore intensità della deflagrazione, sul confine con il porto. Vogliamo credere che, proprio per il fatto di essere nato dallo studio di questi luoghi usandone anche i materiali tipici, essendo stato pensato da subito per essere “un’archeologia vivente, ospite di vita, memoria e natura” ispirato dall’archeologia permanente della città, esso è riuscito a diventare un progetto estremamente solido, in grado di resistere, assumendo in sé quella capacità primigenia di Beirut di rinascere nel tempo e contrastare le tante avversità, esattamente come fanno i resti archeologici che sanno sopravvivere ai secoli, alle guerre e agli errori degli uomini.

UNA FACCIATA ARTIGIANALE IN TERRA E CEMENTO
La tipologia di struttura portante e di rivestimento monomaterico scelti per avvolgere lo Stone Garden sono indubbiamente stati elementi costruttivi essenziali per raggiungere l’obiettivo della progettista di realizzare una torre che fosse percepita come una scultura amorfa, ancorata al terreno ed emergente da esso, tranquillizzante e protettiva: “una trasformazione della pelle mitragliata degli edifici cittadini in un gioioso rifugio verticale”. Ispirandosi alla terra, alla vegetazione e in particolare alle linee parallele dei campi agricoli arati a mano, con la terra appena ribaltata in attesa della imminente semina, Ghotmeh ha pensato di disegnare su misura una facciata monomaterica, da realizzare artigianalmente, che avvolgesse tutta la torre, enfatizzandone così la percezione di scultura fuori scala, un po’ oggetto un po’ edificio, come scolpita da un unico blocco di pietra. Volendo una superficie rugosa, artigianale, irregolare e “imperfetta”, il processo di ideazione, produzione e realizzazione del rivestimento di facciata è stato frutto di un processo di sperimentazione progressivo e incrementale. Si cercava, tra l’altro, una soluzione che permettesse di evitare giunti visibili verticali o orizzontali, su facciate come la nord e la sud che sono larghe 40 e alte 50 m. In primo luogo, i progettisti hanno lavorato con i produttori e l’appaltatore per realizzare più di 40 diversi campioni di prova realizzati con miscele differenti di terra locale, cemento e fibre, ottenendo risultati diversi per colore, tessitura, lavorabilità ecc… La versione realizzata, scelta alla fine di questo processo, vede uno strato di intonaco colorato a spessore variabile, tra circa 3 e 6 cm. Esso è steso direttamente sui muri portanti di calcestruzzo armato e, oltre che per attrito, rimane in posizione anche grazie a dei perni d’acciaio inossidabile fissati alla struttura che sorreggono una rete d’acciaio inossidabile a cui l’intonaco viene aggrappato. A ulteriore rinforzo, soprattutto alla fessurazione, sono stati aggiunti alla miscela degli additivi fibrosi, oltre a un ulteriore film additivo, applicato in superficie, ad aumentarne la impermeabilità e resistenza all’acqua. La superficie dell’intonaco è stata poi scolpita da due speciali “pettini” d’acciaio, disegnati con profili differenti direttamente dalla Ghotmeh, lunghi 3 metri e tagliati a laser con una macchina CNC. Tali pettini sono stati poi montati in cantiere su delle rotaie, contenute in appositi telai ricollocabili, per essere poi fatti scorrere manualmente avanti indietro più volte dagli artigiani, “arando” l’intonaco. L’operazione di posa artigianale è durata circa un anno per una superficie di facciata di circa 5.000 mq. Con questa scelta, l’edificio porta in sé anche le tracce visibili di chi lo ha realizzato, ovvero lavoratori esperti che, nella maggior parte dei casi, sono arrivati a Beirut fuggendo dalle guerre dei Paesi vicini.

UNA STRUTTURA MASSIVA E RESISTENTE IN CALCESTRUZZO ARMATO
Come si è già avuto modo di accennare, la scelta della tipologia di struttura portante da costruire per realizzare lo Stone Garden è stata uno dei motivi che ha permesso di raggiungere pienamente l’idea della sua progettista. La torre si trova a Beirut, quindi in zona classificata come a elevato rischio sismico. Per fronteggiare tale situazione, l’edificio è stato realizzato con una struttura di tipo tradizionale come una scatola con pareti perimetrali piane interamente in calcestruzzo armato, interrotte solo dai fori per le aperture previste dal progetto delle facciate. In questo modo, tra l’altro, i piani risultano liberi, senza pilastri o muri portanti interni, a favorirne la flessibilità. Tale scatola di calcestruzzo funge anche da sistema resistente alle spinte orizzontali derivanti dai carichi sismici massimi previsti per la zona e da vento fino a 160 km/h e velocità fino a 45 m/sec. Questa soluzione, tra l’altro, ha resistito molto bene anche all’esplosione. Ulteriori rinforzi sismici sono stati realizzati in corrispondenza delle aperture presenti in facciata. Tutto il calcestruzzo fuori terra rivolto verso l’esterno è stato trattato con un additivo impermeabilizzante aggiunto alla miscela, con lo scopo di proteggerlo e aumentarne la durabilità vista la vicinanza e l’esposizione al clima aggressivo del mare. Gli impalcati sono anch’essi gettati in opera e sono stati pensati come lastre sottili realizzate, in tutti i livelli al di sopra del suolo, con delle piastre piane di calcestruzzo armato post-teso e spessore variabile tra 20 e 32 cm. Nei sei piani interrati, invece, i solai sono stati realizzati con delle piastre piane tradizionali di calcestruzzo armato senza travi fuori spessore, anche in questo caso per favorire la flessibilità interna degli spazi. Lo scavo dei sei livelli interrati situati interamente sotto il livello della falda acquifera non è stato di semplice attuazione. Si sono costruiti dei pali di puntellamento in calcestruzzo realizzati senza ricorrere a impalcature interne ed è stato necessario utilizzare anche sei pozzi di drenaggio ai lati che sono stati tenuti in funzione per tutto il tempo al fine di abbassare il livello della falda e mantenerlo, durante la realizzazione, di un metro sotto il livello della platea di fondazione. Tale sistema di puntellamento è stato progettato anche per proteggere gli edifici adiacenti, datati e privi di piani interrati, da eventuali danni che si sarebbero potuti verificare durante la costruzione.

Scheda progetto
Architetto: Lina Ghotmeh — Architecture
Periodo: 2010-2020
Total floor area: 6.413 mq
Neighbourhood: Port
Partner Architect: BATIMAT Architects
Design Architect: Lina Ghotmeh during Lina Ghotmeh — Architecture (2016-2020) and Dorell.Ghotmeh.Tane (2010-2016)
Committente: RED Property Development
Land Owners: Fouad El Khoury, Ilham El Khoury, Marwan El Khoury
Impresa principale: Pegel Lebanon
Ingegnere strutturale: CODE Consultants & Designers
MEP Engineer: AME Consultants
Vertical Transportation: Habib Srour
Fenestration: Clement Grinion
Photos: Iwan Baan, Lina Ghotmeh, Fouad El Khoury, Rachid Khalil, Takuji Shimmura

Arketipo 150, Calcestruzzo, ottobre 2021