Un’onda di mattoni che si conclude in un parallelepipedo segnato da tagli sottili, tra Alvar Aalto, Louis Kahn e Balkrishna Doshi, attrae lo sguardo di chi cammina lungo uno dei viali principali di Hamedan, tra le maggiori città storiche dell’Iran.
In linea con una sensibilità tutta contemporanea che guarda alla caratterizzazione dello spazio urbano in quanto elemento di connessioni con l’intorno, oltre che, naturalmente, alla risposta puntuale a uno specifico programma funzionale, questo progetto di Farshad Mehdizadeh e Ahmad Bathaei destinato a commercio e uffici racconta come si possa parlare un linguaggio globale e attuale riprendendo elementi (e materiali) della tradizione più antica così come suggestioni all’ormai storico Movimento Moderno.
Si tratta, dunque, di un intervento che è anche luogo urbano grazie, non solo all’impianto generale dell’edificio, tutto completamente in mattoni tradizionali iraniani ritagliato da quei segni verticali vetrati di larghezza variabile che lo rendono vibrante, ma soprattutto per quell’elemento strutturale, la copertura del primo livello, che, aggettando leggermente, si fa segno e si fonde con il paesaggio urbano divenendo onda-belvedere, ma anche rampa di raccordo tra il livello stradale, verso cui declina, e gli uffici del secondo piano e da qui al roof garden, pensato come ulteriore elemento di connessione, visiva, con la città e il paesaggio.
In particolare, l’onda in trama di mattoni è stata pensata come luogo in cui sedersi, camminare o giocare, come accade, del resto, in molte delle piazze cittadine in cui, per tradizione, i livelli si diversificano per poi raggiungerei i grandi viali di collegamento. Anche in questo caso è proprio uno degli assi cittadini a segnare, a ovest, il perimetro del lotto di intervento e, in un certo senso, ad aver ispirato la composizione d’insieme in cui il limite tra spazio pubblico e privato si fa sottile e, pur mantenendo una sostanziale separazione tra le funzioni previste, apre nuove vie all’immaginario contemporaneo.
L’idea centrale e generatrice dello schema funzionale è stata quella di collegare ogni differente destinazione dell’edificio, separatamente e direttamente, allo spazio urbano. Dalla rampa sinuosa si accede direttamente agli uffici posti al piano superiore; questa diversificazione di livelli è stata ottenuta, come ben spiegano gli stessi progettisti, “con gli accessi decentrati, una scelta in antitesi con il sistema più scontato di collegamento tra diverse funzioni risolto con un nucleo centrale di distribuzione comune”.
Dunque un edificio che si legge meglio in sezione (forse sarebbe piaciuto persino ad Adolf Loos) e dagli interni inaspettati ed eterogenei che partono dall’interrato, con il livello dei parcheggi, per salire allo spazio completamente vetrato in facciata e a doppia altezza della zona retail, su cui affaccia anche il mezzanino con l’accesso secondario al commercio.
Qui, l’interno è caratterizzato dalla struttura a fisarmonica della copertura con la successione delle sue travi sinuose e digradanti in intonaco bianco. Al di sopra, come se si trattasse di una stratificazione secolare di architettura ‘spontanea’, si pone il blocco parallelepipedo degli uffici a cui si accede direttamente dalla rampa a onda e i cui interni sono suddivisi dalla presenza di librerie fisse che schermano anche i fronti in mattoni ritagliati dalle lunghe vetrate verticali.
Da qui, una scala interna conduce alla copertura con il giardino destinato agli eventi della stessa società e pensato come un ‘patio sospeso’ tra le alte pareti, continuazione dei fronti in mattoni per raggiungere l’altezza degli edifici adiacenti, con una zona servizi schermata da una quinta di pilastri di legno e una pavimentazione a listelli di legno alternati a ghiaia scura.
Visto dal lontano l’edificio attrae e stupisce per la sua modernità rimanendo, comunque, severamente ancorato a una memoria di difficile identificazione, ma culturalmente non distante dalla migliore tradizione del luogo. Un’occasione che ci parla di una ricerca sofisticata, ma anche di una formazione internazionale (quella dei due progettisti) capace di declinarsi nei materiali, nei dettagli costruttivi, nella ricerca strutturale, nella risposta funzionale e, soprattutto, nell’ urban design in un unicum di alta qualità.
L’Iran contemporaneo
Superato il difficile periodo delle sanzioni economiche da parte dell’occidente, il paese mediorientale dalla storia culturale altissima e antichissima sta ripensando anche il proprio linguaggio architettonico con una ripresa significativa dell’industria edilizia e, soprattutto, delle interrelazioni tra le maggiori università iraniane con il resto del panorama internazionale.
Certamente il paese, in quarant’anni, ha cambiato almeno due volte il proprio assetto culturale e politico con rivolgimenti sostanziali e di forte impatto. Dopo il periodo di forte modernizzazione (perfettamente metabolizzata ma forse troppo rapida) giunto fino all’ultimo Shah è seguita l’epoca del regime teocratico degli ayatollah con la sostituzione di una laicità culturale con una religiosità sostanziale fatta di alcune forme di limitazioni dei diritti (per la popolazione in generale e per le donne in particolare) senza mai un reale limite nella produzione architettonica, se non nei termini di una ripresa costante di scelte linguistiche maggiormente vicine alla tradizione islamica.
Numerosi gli studi che negli ultimi trent’anni hanno prodotto edifici pubblici di notevole portata (musei, monumenti, edifici ministeriali) così come edilizia residenziale nelle sue più varie declinazioni (dalle ville ai condomini passando per interi quartieri abitativi), tra questi Mohsen Foroughi, Aziz Farman-Farmaian o Reza Moghtader, e molti altri ancora.
Del resto le relazioni con l’occidente sono state strette fino ai tempi recenti e, dagli anni cinquanta fino a tutti gli anni ottanta, in Iran progettavano personaggi della levatura di Gio Ponti, Skidmore Owings e Merrill, Claude Parent, Kenzo Tange, per citarne alcuni.
Le nuove generazioni, di cui fanno parte anche i due progettisti di Termeh, così come è avvenuto in campo artistico (si pensi a Mariane Satrapi o Shirijn Neshat) , si stanno esprimendo con una produzione di tutto rispetto. Tra i nomi di spicco con importanti riconoscimenti internazionali si sono distinti, in tempi recenti, per la produzione digitale di Farshid Moussavi , ma anche Ramin Mehdizadeh, Mehrdad Yazdani, Nader e Hadi Tehrani, le sorelle Hariri, Bahram Shirdel, Nasrin Seraji, Reza Daneshmir, Abbas Riahifard oppure Ali Dehghani, Ali Soltani e Atefeh Karbasi, fondatori e soci di Ayeneh Office. Anche Pouya Khazaeli, i cui progetti sono stati più volte pubblicati su riviste italiane e internazionali, ha avuto un ruolo determinante nel movimento progressista dell'ultimo decennio. Tutti figli, se non dell’Erasmus europeo, certamente degli scambi interculturali tra le più importanti istituzioni internazionali, dove dialogo e confronto culturale si fanno architettura globale e locale, sostenibile e partecipata, etica e, talvolta, poetica.