Il paesaggio della Blåvand attrae, ogni anno, un tipo di turismo che si discosta dalle mete abituali. Le passeggiate naturalistiche fra acquitrini, dune e torbiere si scontrano infatti con gli spettri di un passato bellico: lungo i percorsi di trekking compaiono cartelli che invitano a non addentrarsi nel verde per la possibile presenza di mine; sulla costa e nell’entroterra i sentieri si affiancano a rovine di cemento massiccio, consumate da salsedine e vento. In casi sporadici spuntano da questi ruderi abbandonati sagome d’acciaio in forma di mulo - animale infertile, simbolo della sterile guerra. Le sagome sono installazioni d’arte, parte del Peace Project che nel 1995 la Danimarca promosse per non perdere la memoria della guerra, a cinquant’anni dalla sua fine. Nella regione della Blåvand, in particolare, tale memoria coincide con i resti del Vallo Atlantico, attorno ai quali si districano i sentieri e le piste ciclabili. Nella municipalità di Varde, nei pressi del paese di Oksby, un gigante grigio di betón brut fa capolino tra dune e basse colline, semisepolto e corroso dall’aria salmastra. Guarda la linea di costa da una certa distanza, come uno schivo spettatore, al di là di una strada carrabile. Dal fronte che si rivolge al mare, si presenta come una geometria inaccessibile: un parallelepipedo dalla superficie scabrosa, ostile; poche feritoie lo solcano, e non guardano al passante ma al cielo e all’acqua.

Per alcune decadi, alle sue spalle, non si incontravano altro che verdi colline fino a raggiungere un secondo bunker, suo gemello e omonimo; oggi quello giace abbandonato, questo arde invece di vita nuova, grazie alla riqualificazione della municipalità che l’ha voluto includere nel proprio sistema museale, il Vardemuseerne. Alle spalle del bunker, quindi, si incontra oggi un paesaggio differente: collinare sì, ma artificiale. Sono le falde inclinate del Tirpitz Bunker Museum, il “museo invisibile” disegnato dalla firma danese Bjarke Ingels Group e inaugurato nel 2017. L’impianto volumetrico del progetto di BIG è limpido quanto, per certi versi, ingenuo. Il grande parallelepipedo scuro e pieno del bunker, che per primo si incontra provenendo dall’accesso previsto - il parcheggio lungo la strada - viene controbilanciato dal parallelepipedo vuoto e luminoso della piazza centrale, fulcro dell’edificio. Si accede a tale piazza superando il bunker e seguendo un ampio sentiero a cui si affiancano resti di artiglieria della Seconda Guerra Mondiale, fino a incontrare un passaggio pavimentato, vetrato ai lati, che scava tra le dune. È uno dei quattro accessi allo spazio centrale, uno per lato, che convogliano il disegno planimetrico verso la piazza. Nonostante lo studio riferisca tale disegno a una connessione con il sistema sentieristico della Blåvand, è evidente come in realtà sia autoreferenziale rispetto al paesaggio. Non che la connessione con i sentieri non ci sia: c’è, è indubbio; solo non è antecedente al museo, ma nasce con esso. La giustificazione di queste direttrici tuttavia non deve necessariamente ricavarsi dal contesto: l’equilibrio formale è inattaccabile e sorge proprio dalla semplicità dell’idea generatrice. Quattro volumi interni vengono divisi da quattro nette cesure. La disposizione di queste ultime crea un vortice con al proprio centro il vuoto, aperto e pubblico, grazie al quale risorge il pieno, chiuso e militare. Una certa parte della critica ha dibattuto se i quattro bracci vogliano richiamare una svastica, ma tale lettura non si può ascrivere agli intenti originali; sia pure come risultato fortuito, non pare fuori luogo in un museo che racconta la storia dell’occupazione nazista.

La chiara scansione formale fin qui presentata è evidentemente una composizione di vuoti esterni. Il pieno in cui essi scavano, la duna artificiale, è dove si trova il cuore del progetto: il “Museum” del Tirpitz Bunker Museum, lo spazio interno nel quale i visitatori entrano e vivono l’esperienza di un percorso espositivo. L’accesso a questo tesoro sepolto avviene dalla piazza. La vetrata a nord apre sul primo dei quattro grandi volumi che compongono la duna, in superficie, e gli spazi espositivi, nel sottosuolo. È questo l’unico dei quattro in cui si incontra un piano intermedio tra quello interrato e il tetto: a livello con la piazza, infatti, si trovano biglietteria, bookshop e bar, che si collegano con una passerella sospesa su una doppia altezza agli esterni a livello zero. Gli altri tre volumi espositivi sono invece a pianta totalmente libera, e vi si accede attraverso l’ambito che si trova immediatamente sotto la piazza, come un’impronta lasciata da quel vuoto nel terreno. Nonostante la vocazione distributiva di questo spazio, che si trova al crocevia tra le esposizioni e i corridoi sottostanti i bracci di accesso esterni, il trattamento del suo perimetro gli dona flessibilità. Le quattro pareti che circoscrivono tale volume per dividerlo dalle aree delle mostre sono infatti pensate per poter svanire, tracciando un arco all’interno dei volumi espositivi fino a collocarsi lungo le loro pareti interne. In tal modo i progetti culturali del museo possono espandersi includendo un ambiente altrimenti cieco e di passaggio. I quattro ambienti dentro i quali si trovano le esposizioni sono infine caratterizzati da due grandi temi. Da un lato, sono delle vaste aree libere da qualsiasi supporto strutturale: stanno sotto quattro ambiziosi aggetti, che nel punto più alto, in corrispondenza dei vertici che si ergono sulla piazza, svettano di sei metri rispetto al livello del suolo e di dieci rispetto al pavimento delle mostre. Oltre a garantire il massimo sfruttamento dello spazio interno, ciò comporta anche l’ingresso di abbondante luce naturale - un elemento senz’altro cruciale per questa architettura, anche nei termini negativi in cui influisce sulle possibilità espositive. Dall’altro, è dentro a questi volumi, oltre che nel bunker, che si svolge l’attività principe di un museo: l’organizzazione di mostre, l’esperire degli spazi.

L’ESPERIENZE DELL'ESPORRE
“La progettazione di un’esposizione è uno dei grandi temi di cui l’architettura si interessa dalle sue origini. Quando tuttavia da esporre non c’è nulla - né eventi particolari che abbiano coinvolto il luogo, né collezioni iconiche o uniche - la sfida si fa ardua. L’esposizione non può limitarsi a presentare: deve coinvolgere, incuriosire, stuzzicare; deve trasformarsi in un’esperienza. I Tinker Imagineers, per ottenere tale risultato, sfruttano alcuni elementi chiave. In primo luogo le scenografie: ciascuna delle grandi stanze circoscritte da BIG diventa palcoscenico per esposizioni riconoscibili, che aiutino il visitatore a orientarsi e lo attraggano verso i racconti che nascondono. Tali racconti costituiscono poi il secondo piedritto di questo sistema trilitico, poiché è grazie a oltre 160 storie, ciascuna tra i 40 e i 60 secondi di durata, che attraversare il museo diviene un viaggio e non un percorso. Infine, attraverso storie e scenografie, trovano il loro posto anche vari espedienti tecnologici - proiezioni in 4D, realtà aumentata - volte a smuovere dalla noia i visitatori più flemmatici. Gli spazi su cui intervengono i Tinker sono tre dei quattro volumi per esposizione di nuova costruzione e il bunker. Nei tre spazi espositivi vengono collocate altrettante gallerie permanenti. La prima, Army of concrete, è una ricostruzione di alcune parti del Vallo Atlantico, che ricorda in qualche modo la replica delle pitture rupestri nel Centro di Lascaux di Snøhetta; la seconda, Gold of the West Coast, racconta il legame della Danimarca col commercio di ambra, immaginando una foresta primordiale interattiva; infine in West Coast Stories una scialuppa di salvataggio incastrata in scogli poligonali che sembrano appartenere a un’altra dimensione, permette di rievocare il rapporto tra terre danesi e mare, dai tempi dei Mammuth ai giorni nostri. Il bunker, infine, viene pensato per raccontare la propria storia reale - di base d’artiglieria incompiuta e mai utilizzata - e possibile - ricostruendo dove si sarebbero collocate truppe, munizioni, vettovaglie. Nel pozzo centrale, che sarebbe dovuto essere interamente occupato da un colossale strumento di morte, si incontra invece un proiettore, che getta luce sui segreti di questo schivo gigante grigio.

UN MUSEO INVISIBILE
Un edificio che si confonde con il paesaggio non è un’idea nuova nell’architettura. Anzi, negli anni Duemila e Duemiladieci la preoccupazione del contrasto tra verde e costruito ha portato molti studi a ricercare una mimesi con lo sfondo naturale ove si collocano i loro progetti, talvolta in modo goffo. Il Tinker Bunker Museum, tuttavia, costituisce un esempio particolarmente elegante di tale filone di ricerca. I materiali impiegati manifestano chiaramente la cura riposta nel tracciare il progetto. Due delle quattro falde di ciascuno dei quattro volumi espositivi si congiungono con il verde circostante senza soluzione di continuità; gli altri due lati confinano con il cielo, e si staglia sull’azzurro l’arancio acceso di una lamina di corten. La lamina viene continuata da una ringhiera dello stesso materiale, che, attraverso una foratura dei pannelli, sfuma il confine tra oggetto costruito ed etere. L’acciaio è coperto dalla stessa ruggine che consuma il grande cannone d’artiglieria, tagliato in pezzi, che affianca il visitatore nel percorso dal parcheggio al museo. Entrambi hanno il sapore di una ferita, l’una nella Storia, l’altra nel terreno. Sotto l’acciaio, il vetro. Le vetrate che affacciano sulle sale espositive sono alti pannelli di vetro stratificato, a singola camera, racchiusi in un serramento che presenta un taglio termico alla base e sulla cima, mentre lungo i lati gli elementi sono giuntati gli uni con gli altri con semplice silicone strutturale. L’altezza dei pannelli va crescendo, dal perimetro del museo alla piazza centrale, seguendo l’inclinazione divergente della falda e del pavimento dei quattro bracci. Le specchiature più alte raggiungono i sei metri, e ciò si riflette in un grave problema di escursione termica lungo la direzione verticale, risolto tramite un sistema di montaggio telescopico capace di assorbire fino a sei centimetri di slittamento. Il cemento armato, infine, è citazione diretta dell’elemento che genera opportunità e necessità di questo museo: il Tirpitz Bunker, come emblema del Vallo Atlantico. Materiale strutturale per tutta la nuova costruzione, si ripresenta anche come finitura per pareti e pavimenti, all’interno come all’esterno.

Scheda progetto
Progettista: Bjarke Ingels Group
Exhibition designers: Tinker Imagineers
Località: Blåvand, Denmark
Committente: Vardemuseerne
Area: ca. 2,880 sqm
Investors: A. P. Møller, Chastine Mc-Kinney Møller Foundation, Nordea Foundation, Augustinus Foundation, Varde municipality
Partners-in-charge: Bjarke Ingels, Finn Norkjaer, Jakob Lange, David Zahle, Andreas Pedersen
Project leader, concept: Brian Yang
Project leader, detailed design: Frederik Lyng
Project manager: Ole Elkjær-Larsen
Team: Snorre Emanuel Nash Jørgensen, Michael Andersen, Hugo Soo, Marcella Martinez, Geoffrey Eberle, Adam Busko, Hanna Johansson, Jakob Andreassen, Charlotte Cocco, Mikkel Marcker Stubgaard, Michael Schønemann Jensen, Alejandro Mata Gonzales, Kyle Thomas David Tousant, Jesper Boye Andersen, Alberte Danvig, Jan Magasanik, Enea Michelesio, Alina Tamosiunaite, Ryohei Koike, Brigitta Gulyás, Katarzyna Krystyna Siedlecka, Andrea Scalco, Tobias Hjortdal, Maria Teresa Fernandez Rojo
BIG ideas: Tore Banke, Yehezkiel Wiliardy, Kristoffer Negendahl
On site supervisor: Fuldendt engineering
On site consulting: Ingeniørgruppen syd Engineering, structural design: AKT II, London
Engineering, façade design: Lüchinger+Meyer
Engineering, energy consultant: COWI
Engineering, wind consultant: Svend Ole Hansen ApS
Engineering, acoustic consultant: Gade & Mortensen Akustik
Engineering, consultant: Kjæhr & Trillingsgaard
Engineering, construction testing and analysis: Pelcon
Installation design, creative director: Tinker imagineers
Installation design, production decor and AV hardware: Kloosterboer décor
Installation design, light design: Tinker, Kloosterboer, Vos & Wolf
Installation design, sound design: Most, Rockfish studio, Jacob Van De Water
Installation design, animations: Wolfraam.studio, Lucidpixel, Mud Ontwerp, Robert Zwamborn
Installation design, photography: Mike Bink, Colin John Seymour, Rasmus Hjortshoj
Landscape design: Bach Landskab
Project start: 2014
Construction completion: July 2017
AWARDS
Architecture: LCD Berlin Leading Culture Destinations of the Year Award, 2020 EU Mies van der Rohe Award, Nominee, 2019 AIA Institute Honor Awards for Architecture, 2019 The Mermaid Prize, 2018 AIANY Design Awards, Honors Award for Architecture, 2018 World Architecture Festival, Best Culture Category Finalist, 2018
Exposition: Gold IDCA “Best Scenography for a Permanent Collection” award 2017 Best themed attraction of Denmark 2017 German design awards 2019 Design week awards 2018 Merit award British guild of travel writers awards 2018 Fx awards 2017
Photos: Rasmus Hjortshoj, Laurian Ghinitoiu, Mike Bink

Arketipo 163, Cultura, marzo 2023