Editoriale
Una architettura costruita in Italia è architettura italiana
Giovanni Leoni


Tra i molti segnali di crisi culturale della architettura intesa come affermazione internazionale di un linguaggio autoriale vi è oggi, in diverse nazioni europee, un crescente protezionismo nazionalista. Le archistar, gli happy few costantemente invitati alla festa dei media, si dice da più parti, hanno trattamenti privilegiati, vincono i concorsi con maggiore facilità, trovano finanziamenti ad altri negati, soffocano, dal non luogo in cui vivono perennemente viaggiando, la cultura architettonica autoctona delle diverse nazioni a cui approdano, senza troppo conoscere le specificità locali. La guerra è stata dichiarata anche in Italia, a inizio settembre, con una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio, pubblicata sul Corriere della Sera (11 settembre 2005) e firmata da 35 architetti. Sono seguite numerose e complesse precisazioni da parte dei firmatari e, fatto non usuale in Italia, la discussione è uscita degli ambienti disciplinari; tuttavia, a distanza di tre mesi, si può dire che il fronte d'attacco abbia già rotto le righe. Del resto, per fare guerre occorrono eserciti organizzati e il gruppo dei sottoscrittori non appariva certo come una schiera compatta: architetti e designer che hanno realizzato e realizzano opere in tutto il mondo (architetti internazionali, dunque); teorici i cui testi sono stati tradotti in molte lingue; accademici che non hanno mai, o quasi mai, costruito architetture, per dedicarsi all'insegnamento; esperti in restauro; storici dell'architettura. Possono, figure così differenti, avere un obiettivo comune? Può tale obiettivo essere, come si legge nella lettera, la difesa del "naturale sviluppo della linea di ricerca... avviata negli anni Trenta del Novecento per opera di un gruppo di architetti... uomini come Terragni, Gardella, Albini, Scarpa, Samonà, Libera, Moretti, Ridolfi"?
Ma una perplessità ancor maggiore deriva dalla scelta dei referenti: i vertici della politica; interlocutore forse troppo generico il Presidente della Repubblica, scelta decisamente ingenua l'attuale Presidente del Consiglio, il cui governo predilige notoriamente condoni, privatizzazioni di beni culturali e opere pubbliche compromettenti per il paesaggio italiano. Senza dimenticare, nemmeno per un attimo, le carenze legislative e amministrative che affliggono la produzione della architettura in Italia, vi è da chiedersi se sia davvero da una azione politica di vertice che dobbiamo aspettarci un ruolo maggiore e più efficace della disciplina architettonica nel nostro paese. Tra i firmatari contiamo tre direttori di influenti riviste distribuite in Italia e all'estero, diversi presidi di prestigiosissime Facoltà di Architettura, due dei quattro nuovi direttori del settore architettura della Biennale di Venezia - uno dei quali nominato in accordo con il DARC, dunque con la struttura governativa di promozione della cultura architettonica italiana -, intellettuali influenti, non solo in ambito nazionale. I firmatari sono, dunque, una buona rappresentanza dell'establishment della architettura italiana; progettano, insegnano, scrivono, fanno opinione, sono nelle giurie dei concorsi. Se le Biennali passate non hanno valorizzato l'architettura italiana, lo faccia la prossima, con tre direttori italiani su quattro e, finalmente, una sezione dedicata all'Italia; se le riviste non valorizzano l'architettura italiana, chi le dirige o vi scrive si impegni a valorizzarla; se nelle scuole il fascino della architettura alla moda ha offuscato la "linea di ricerca" evocata dalla lettera, la si indaghi e la si insegni; infine, e soprattutto, si facciano vincere, nei concorsi, i progetti migliori, senza pensare alla nazionalità o discriminare l'età - e i fatturati - dei partecipanti, perchè si sa che, in Italia, un architetto under 50 è visto, da molte amministrazioni pubbliche, come un pericolo d'inesperienza e non come  una risorsa di creatività, e dovrebbe esser compito di chi ha ruoli guida nel campo della cultura architettonica invertire una tendenza che sta mortificando le risorse intellettuali presenti nel nostro paese.
Ma l'ambiguità maggiore della lettera consiste forse nella individuazione del nemico: l'architetto straniero di fama che sottrae i grandi temi alla cultura architettonica italiana.
Innanzi tutto, è difficile escludere per principio che i grandi temi progettuali di un paese siano sottoposti al contributo di ogni bravo progettista, qualunque sia la sua nazionalità e, probabilmente, nessuno dei firmatari sarebbe davvero disposto a rinunciare alla grande tradizione di contaminazioni e relazioni internazionali su cui si fonda la storia della migliore architettura italiana oltre che, spesso, la loro, dei firmatari, storia personale.
In secondo luogo, ciò di cui la lettera non tiene conto è che una architettura costruita in Italia diviene, inevitabilmente, una architettura italiana. Anche se la sua ideazione avvenisse nella assoluta atopia del più isolato studiolo del più internazionalista e individualista tra gli architetti, la sua costruzione la renderebbe italiana, perché l'architettura, fatta salva la Casa della Madonna di Loreto, non cala dal cielo "per angelico ministero" ma si costruisce, opera collettiva, in un luogo, e la complessità della sua costruzione la lega con infiniti lacci - materiali e di mentalità - al luogo in cui sorge. La domanda più urgente, dunque, non riguarda forse tanto lo strapotere mediatico delle archistar - fenomeno in fondo sopravvalutato rispetto all'accadere reale della architettura e la cui critica potrebbe rivelarsi non meno mediatica - quanto la capacità da parte della attuale cultura del progetto, italiana e non, di offrire - con i più diversi strumenti espressivi e le più varie ricerche formali -  risposte puntuali e locali a ogni tema progettuale. E la domanda specifica che la cultura architettonica italiana dovrebbe forse arrivare a porsi è perché non sia più in grado di offrire soluzioni progettuali forti, fondate su una conoscenza specifica e puntuale dei luoghi.
Se si leggono, nelle pagine di seguito, le interviste agli architetti stranieri che stanno operando in Italia, si avverte una sorta di paradosso, poiché tutti mostrano di cercare, ovviamente con diverse prospettive, una lezione scritta nel paesaggio e nelle città italiane, una lezione che forse, per ansia di internazionalismo e qualche recente complesso di inferiorità, la cultura architettonica italiana ha invece posto in secondo piano.
Forse, se si inizia a pensare che il problema non consiste nell'occupare le prime o le seconde file della scena internazionale, ma nell'affrontare con attenzione puntuale e specifica il tema della trasformazione del territorio e delle città italiane, ci si potrebbe accorgere che esiste un terreno comune, piuttosto che un motivo di scontro, uno straordinario ambito di ricerca progettuale rispetto al quale poco importa la nazionalità, la collocazione generazionale, la rilevanza mediatica dei partecipanti alla ricerca, poiché le questioni poste dal territorio e dalle città italiane sono talmente forti da dominare esse stesse la scena offrendo, appunto, un campo di incontro in luogo di uno scontro tra personalità.
La felice commistione di diverse culture architettoniche impegnate su grandi temi, del resto, sta già avvenendo e inevitabilmente avviene, ogni volta che un progettista archistar avvia un'opera italiana, perché ciò implica collaborazioni con studi italiani nei più differenti campi specialistici e, fenomeno non trascurabile e non ancora valutato nella sua portata, una rete di collaborazioni con giovani architetti italiani che possono trovare grandi occasioni di formazione e apertura delle proprie possibilità professionali.
Resta infine da aggiungere che le occasioni straordinarie non sono tutto nella trasformazione fisica di un paese, anzi, per quanto rilevanti, restano una parte infinitesimale. Emerge quindi un tema più chiaro e, forse, più interessante, che la lettera citata certamente contiene ma in forma implicita, offuscata dal senso di un "protezionismo" nazionalista: in Italia ancora manca, nel processo di produzione della architettura, un tavolo serio a cui si discuta e decida della qualità, mancano strumenti che costringano a un dialogo reale, su basi comuni di intesa, tutti i soggetti coinvolti nei processi reali di costruzione della architettura - amministratori, finanziatori, costruttori, progettisti; ciò deve avvenire, prima che nelle occasioni straordinarie, nel quotidiano e ordinario accadere della architettura, ben più determinante per la qualità dello spazio in cui viviamo. Siano questi strumenti i concorsi, ma istruiti con professionalità e gestiti da giurie che siano tali, siano invece nuovi organismi decisionali affiancati a quelli esistenti e dedicati alla discussione della qualità, sia una revisione del ruolo delle Soprintendenze, messe in grado di abbandonare l'attuale e inutile azione di puro veto passivo per divenire strutture propositive e culturalmente avanzate. Manca, va ancora aggiunto, un interesse non specialistico nei confronti della architettura, e qui le responsabilità sono della scuola - non solo al livello universitario -, degli specialisti - che hanno lungamente trascurato la divulgazione -, dei mezzi di comunicazione generalisti - che se ne disinteressano quasi completamente. E' un altro impegno in relazione al quale, i firmatari della lettera, hanno grandi potenzialità di risposta in proprio, senza appellarsi ai vertici di una politica che appoggia le proprie intenzioni, buone o cattive che siano, sul terreno franoso di una generale disinformazione, nel quadro di un distacco tra linguaggi colti della architettura e mentalità comune che ha origini profonde.