Vittorio Savi
Epochè del porto della piccola città marittima


Chi crede il porto una specie di stanza all'aperto attraente per l'uomo esaurito dalla vita moderna? Chi crede che l'uomo stressato trovi sollievo nello sguardo gettato sull'architettura della diga, l'architettura della banchina e l'architettura mutevole del cielo e delle nuvole, sull'andirivieni delle barche, che entrano nel bacino, ne escono, e tavolta sostano o restano attraccate, e che, mentre vanno, vengono, beccheggiano, trasmettono "il gusto del ritmo e della bellezzza"? Chi ritiene che il medesimo stressato rintracci l'antidepressivo nel sistemarsi sopra il molo o sul terrazzo, nel contemplare "tutti i movimenti di chi parte e di chi torna, di chi ancora ha la forza di volere, il desiderio di viaggiare o di arricchirsi"? Nel 1864, Charles Baudelaire distilla la crisi della coeva coscienza europea, e, profeticamente, distilla la crisi della coscienza novecentesca nel giro del poemetto in prosa brevissimo, c. 140 parole, intitolato Le port. In realtà, Baudelaire, colpito dallo spleen, si sofferma sopra la situazione-porto. Lo fa con acume senza pari, senza sprecare motto riferibile al lessico positivista, alla categoria funzionalista, alla categoria geografica, eccetera, eccetera. Ma Baudelaire non sembra neppure intuire quel punto teorico dove, 1521, il neovitruviano Cesariano, raffigura il porto come l'organismo edilizio multiplo, e ne tratteggia l'articolazione: la strada coincidente con la banchina e la piazza acquorea dove si affacciano i templi e i fari, le macchine e i magazzini, le abitazioni e i negozi, le case e le osterie e i bordelli; non pare neppure sfiorare la definizione offerta prima ancora da Alberti, affermante il porto quale fabbricato-modello tra cielo, mare e terra, nonché edificio pubblico più importante della città marittima.