Intervista – Il direttore della filiale italiana dell'associazione ambientalista, Michele Candotti, spiega come sta cambiando il rapporto delle aziende con lo sviluppo sostenibile

“Le imprese sono parte del problema e devono necessariamente essere parte della soluzione.” Questa, in sintesi, l'opinione del Wwf sul rapporto tra le aziende e l'ambiente. A che punto è il made in Italy sostenibile? Un tema che Ambiente Cucina ha approfondito con Michele Candotti, direttore generale di Wwf Italia, firmatario dei nuovi accordi con Electrolux Zanussi e Federlegno Arredo per una politica di sempre maggiore sensibilizzazione delle imprese e dei consumatori.

Come si può definire il rapporto tra Wwf e imprese?
Il rapporto tra Wwf e imprese costituisce un caso molto interessante. Le associazioni ambientaliste hanno un ventaglio di posizioni diverse rispetto alle imprese: da una parte, l'azienda è vista come donatore, dall'altra si rifiuta qualunque relazione per avere totale libertà d'azione. Wwf, da vent'anni, ha scelto una strada che si evolve continuamente. Non si può cambiare il mondo da soli: noi lo facciamo con le istituzioni, le imprese e i cittadini.

Che cosa è cambiato negli ultimi vent'anni?
All'inizio, bisognava valorizzare la capacità comunicativa dell'azienda attraverso il marchio Wwf per attirare l'attenzione del consumatore su stili di vita, prodotti e cause ambientali. Una delle prime campagne con Perfetti per Golia Bianca difendeva l'Artico e l'orso bianco. Le attività erano figlie dei tempi. Era una fase pionieristica ricca di pro e contro: si trattava di attività comunicative e non di tipo trasformativo - cioè che agiscono effettivamente sui comportamenti dell'impresa o dell'utilizzatore - come invece accade sempre di più da dieci anni a questa parte e, con particolare intensità, negli ultimi cinque anni.

Dunque il marchio Wwf ha accorpato altri significati?
Sì, non è più solo appello a una causa ambientale; trasmette l'attenzione che l'impresa dimostra verso i temi dello sviluppo ambientale. Comunica l'impegno a entrare in una nuova era, dove “fare business” significa essere più responsabili.

Quali sono le maggiori criticità nel lavorare con le imprese?
Comunicare al pubblico quello che stiamo realizzando. Soprattutto con le aziende critiche, si ricevono spesso accuse di “greenwashing” (una falsa identità verde, creata ad arte per mascherare responsabilità in campo ambientale, ndr). Occorre molta capacità per spiegare in modo trasparente obiettivi e metodi d'azione, ma la percezione del pubblico, spesso, è molto riduttiva. Con le aziende critiche, prima lavoriamo e poi comunichiamo i risultati.

Qual è lo stato delle imprese italiane in confronto a quelle estere?
La situazione italiana è quantomeno complessa: da una parte, mostra vere eccellenze. Dall'altra c'è molto disordine. Non esiste un settore produttivo più avanzato. Quelle italiane sono esperienze singole, nascono dall'intuizione o dalla scommessa individuale, o fanno parte di gruppi internazionali che hanno la sostenibilità come mandato.

Con Electrolux avete varato il settimo accordo in sedici anni. Che cosa è cambiato?
I temi sono comunicazione, risparmio energetico, riduzione dell'impatto ambientale. L'obiettivo che perseguiamo da più tempo è informare con coerenza e continuità gli utilizzatori, partendo dall'educazione ambientale nei confronti dei bambini. Si è aggiunto il lavoro sulle pratiche aziendali e sulle certificazioni di prodotto. Le azioni evidenziano la debolezza del Sistema Italia, in particolare in termini di trasporto, logistica e fonti energetiche con alti costi ambientali. Queste strozzature domandano alle imprese uno sforzo molto elevato per migliorare le loro prestazioni.

Le normative in vigore favoriscono le aziende che scelgono la sostenibilità?
Mancano in Italia elementi d'equità nel mercato. L'azienda che investe nell'ambiente ha competitori che non giocano la stessa partita con le stesse regole e offrono prodotti di diversa qualità con prezzi minori, magari supportati da un bollino verde disegnato in casa. Manca una regolamentazione: non si è ancora colto e usato opportunamente l'elemento ambientale come vero discrimine rispetto al prodotto. Da noi manca un arbitro, è come il far west, le etichette sono ballerine e le migliori intenzioni sono penalizzate dalla confusione.

La tracciabilità del prodotto e l'etichetta trasparente sono sulla strada giusta? L'accordo con Federlegno è in questa prospettiva?
Sì, la tendenza è procedere verso la certificazione del ciclo di vita e la sua comunicazione trasparente. È un accordo che coinvolge un'intera filiera. Per questo Federlegno è un partner molto importante: rappresenta molte aziende di categoria, è il primo attore utile a sensibilizzare l'industria italiana del legno e derivati per proteggere il patrimonio forestale. L'accordo ha come obiettivo educare alla buona gestione delle fonti che forniscono materia prima, premiare gli approvvigionamenti certificati e comunicare la certificazione come valore aggiunto al prodotto.