approfondimento – Giovedì 31 maggio si è svolto presso l'Ordine di Milano l'incontro di presentazione di "Wonderland manual for emerging architects", manuale di architettura incentrato sull'analisi dei processi progettuali e sulla gestione della propria attività professionale.

L'incontro è stata l'occasione per discutere sulle modalità con le quali un piccolo studio di giovani architetti possa affacciarsi al complicato scenario dell'odierno mercato professionale, emergere e affermarsi.

Valeria Bottelli, Consigliere dell'Ordine, apre il dibattito sottolineando come il libro sia dotato di un ricco apparato di statistiche, informazioni decisive per allinearsi alle richieste del mercato e per scoprire nuovi settori professionali in crescita. La domanda che tutti pongono in questo momento di crisi generale è come e su quali fronti lavorare per poter sostenere la propria attività professionale.

Silvia Forlati, curatrice del manuale assieme ad Anne Isopp e attiva con il suo studio a Vienna, racconta l'esperienza che ha portato alla scelta di redigere il manuale, un grande lavoro di ricerca, un'inchiesta sulle modalità in cui lavorano decine di studi in tutto il mondo. Il principio ispiratore generale è stato concentrarsi sul "come" invece che sul "cosa": analizzare i processi invece degli esiti formali dell'architettura, contrariamente a quello che solitamente si fa sui manuali tradizionali e sulle riviste specializzate. L'architettura, intesa come manufatto, rimane sullo sfondo: quello che conta è il processo e l'attenzione è tutta rivolta all'aspetto gestionale. Alcuni dati: il 50% degli studi di architettura lavora ormai su di un campo d'azione ampio, occupandosi di grafica, design, allestimenti, consulenze per immagini coordinate di aziende. Ci si ritaglia lavoro non più nello specifico settore dell'architettura, ma spaziando agilmente nell'ambito delle discipline creative. Il 40% degli architetti lavora come freelance gestendo la propria attività individualmente, con occasionali collaborazioni con strutture più grandi. Inoltre parrebbe che la stragrande maggioranza degli studi siano di dimensioni contenute, costituiti da una media di 4 persone. Sembra di passare in rassegna i dati del mercato italiano - sottolinea Valeria Bottelli - ma in realtà si tratta di statistiche confermate a livello europeo. La situazione italiana dunque non è isolata ma è assimilabile ad un quadro più generale, rispetto alle cui trasformazioni partiamo tutti dallo stesso punto.

L'intervento di Andrea Liverani, architetto generazione 1969 iscritto alla rete Wonderland Italia, utilizza il medesimo approccio - l'analisi fondata sulle statistiche - per descrivere l'attività dello studio di cui è associato. Ne risulta che i lavori svolti, su di un campione di 100 progetti dal 1999 al 2012, siano equamente distribuiti tra committenza pubblica (51%) e privata (49%), con un 13% dei progetti effettivamente realizzati e un 10% dei concorsi vinti (uno su dieci). La durata media dei cantieri si aggira attorno ai 2 anni per il privato, 6 anni per il pubblico. La visibilità sulle riviste non si traduce effettivamente in aumento delle commesse ma serve ad incrementare l'autorevolezza del proprio studio nel ranking mondiale.

Stefano Tropea, architetto classe 1983 da poco affacciatosi alla professione, si pone problemi concreti: si chiede se l'architettura non sia destinata a diventare un mestiere elitario, incapace di essere "commercialmente funzionante", ovvero attività imprenditoriale sostenibile. E' lo scenario dovuto all'eccessiva saturazione del mercato che, in tempi di crisi, non può offrire lavoro per tutti più di 140.000 architetti italiani. Le grandi difficoltà di questo quadro sono però causate dal mutamento dello scenario generale, al quale occorre adattarsi il più rapidamente possibile.

Silvia Forlati conclude con un dato di ottimismo, assai significativo: nonostante le statistiche sulla professione non siano propriamente incoraggianti, alla domanda se, tornando indietro, gli architetti cambierebbero mestiere, la stragrande maggioranza dichiara un secco "no": dopotutto - chiude Andrea Liverani - "gli architetti non sono poi così razionali".