La Biennale di architettura 2014 dal tema Fundamentals ha dedicato un settore alle facciate, con una parte storica generica e un approfondimento su quelle egizie e neoegizie, per poi presentare molte tipologie e tecniche di rivestimenti e involucri dell’ultimo secolo. Mettendo insieme la facciata – che è storicamente tema compositivo codificato da regole – con l’involucro e quindi tecnica e tecnologia per realizzarlo come si afferma solo dalla metà del XIX secolo. La codificazione postilluminista delle tipologie definite per destinazione d’uso ha poi assegnato specifici significati semantici ai materiali, identificando le tipologie dall’involucro.
È noto che già a Siena nel XIV secolo era d’obbligo l’uso del mattone per i palazzi affacciati sul Campo e che alcuni statuti comunali del medioevo prevedevano i mattoni come unico rivestimento per le case. Il mattone identifica le costruzioni olandesi, dal medioevo a Berlage e Cuypers, dalle case espressioniste dei quartieri di Amsterdam Sud alle sequenze di case unifamiliari, segno di consistenza materica, continuità storica e uguaglianza tra edifici pubblici e privati.
Gli architetti del Movimento Moderno, quelli che lo hanno inteso come stile e non solo come metodo, eredi di Loos, concentrati sul tema della residenza razionale e funzionale, per rendere espressivo il volume nella sua programmatica essenzialità hanno rinunciato a definire un distraente involucro materico, limitato al solo muro intonacato di bianco divenuto codice: così il primo Le Corbusier delle ville, Gropius in Germania, la scuola di Praga, Mallet Stevens, Oud e molti altri.
Una identificazione tra tipologia e involucro è quella – ormai superata – della curtain wall con il palazzo per uffici, e in particolare il grattacielo, con un doppio codice: la definizione di proporzioni e colore del modulo serramento-vetro e un volume stereometrico su cui ripeterlo. Evoluzione della scuola di Chicago, che disegnava facciate completamente finestrate – il cui erede diretto è stato Mies – e dell’architettura ferro-vetro della seconda metà del XIX secolo. Con varianti per i bellissimi grattacieli a tagli piramidali di Pei a Dallas e Hong Kong o per Harrison e Abramovitz, che sostituiscono al modulo finestra dei pannelli in metallo semipieni per dare un ritmo più serrato al disegno. Tipo di facciata che ha subito la crisi petrolifera del ’73 (curtain wall contradditorie con pannelli semipieni per risparmio energetico) e quindi il declino per l’affermarsi di nuovi materiali per gli involucri.
Per alcuni architetti il materiale di facciata è divenuto elemento sostanziale del linguaggio: il cemento a vista è ruvido disegnato da casseri in legno di tecnica tradizionale per esprimere la forza brutalista delle forme in Le Corbusier, che talora lo usa per maxxigrigliati a coprire la facciata (involucro strutturale su involucro a Cambridge, Chandigarh, La Tourette); è al contrario liscio, scuro, setoso nelle opere di Ando prodotto da casseri metallici, con tecnica raffinata, e moduli da tatami, per dialogare con la luce. Botta definisce i suoi grandi simmetrici volumi elementari disegnati da profondi tagli, con l’uso dei mattoni o dei blocchetti a fasce bicrome che li rende immediatamente riconoscibili, ovunque nel mondo perché il linguaggio è prevalente sul luogo e sulla storia.
Stirling, che ha avuto un rapporto eclettico con gli involucri, utilizza laterizi in modo “tradizionale” nei tre edifici per università a Leicester, Oxford e Cambridge per le parti piene in contrasto con le superfici in ferro e vetro facendo una scelta di linguaggio, ma non in altri suoi lavori.
Negli anni ‘70 alcuni architetti interpretando la tecnologia come perno della evoluzione della contemporaneità hanno inventato un linguaggio, sorto quasi dal nulla come il gotico nel medioevo, risolvendo in forme innovative il rapporto tecnica-progetto-linguaggio, estroversando strutture, impianti e macchine cui attribuire forme anche sovradimensionate e colorate, per evidenziare l’immagine, dal Beaubourg di Rogers (che è uno degli innovatori) e Piano, agli uffici dei Lloyd’s sempre di Rogers, al grattacielo della Bank of China di Foster, e a seguire le altre opere loro, di Nouvel, Calatrava e tanti seguaci, introducendo un nuovo codice e sostituendo la complessità compositivo-strutturale alla complessità funzionale, modificando il rapporto di produzione di tecniche e materiali.
Nel 1973 C. Jencks, in Modern movements in architecture, preannuncia nuovi indirizzi: il pioniere è Gehry, che nella sua casa di Santa Monica, 1977, utilizza legno, lamiere, vetro, cemento…assemblati come in un casuale patchwork. Nuovi materiali e tecniche e la globalizzazione della comunicazione pongono agli involucri nuove esigenze e possibilità: l’architettura divenuta astorica e atopica, pone come nuovi codici la novità e la differenziazione, il riferimento alle arti visuali e alle installazioni – magari senza chiare distinzioni tra gli ambiti – magari con connotazioni che sono quelle della pubblicità.
Herzog e De Meuron sono esemplari per la continua ricerca di soluzioni connesse alla funzione: fasce di rame per le centrali elettriche delle ferrovie, lastre di metallo per i magazzini, vetri ogni volta speciali per alcuni edifici, marmo, gabbionate di ciottoli, e così via. Esemplari sono i corporate buildings che devono essere dei manifesti, trasparentissimi come Prada o Tod’s a Omotesando, visibili di giorno e illuminati di notte, o in vetrocemento di formato doppio come Herme’s a Ginza, che ribalta il riferimento storico della maison de verre di Chareau, che voleva impedire la vista dal cortile alla casa e era illuminata da fari dall’esterno. Edifici anche recenti cambiano pelle o vengono rivestiti come il padiglione tutto vetro di Nouvel a Groningen rivestito di film plastici colorati. Involucri in tessuti plastici sono utilizzati programmaticamente per edifici temporanei che affidano la loro attrattività a pannelli coloratissimi, dall’Instant city di Ferrater 1971 alla Serpentine 2015 di Solgascano. Facciate interamente verdi dopo quelle antesignane di Ambasz sono ora totalmente verticali a cominciare da Blanc al Museo Quai Branly a Parigi.
L’uso del legno come involucro è passato dall’edilizia tradizionale a quella d’autore, per dichiarare una nuova tecnica che dovrebbe essere più ecologica e reversibile, e che talora diventa involucro dell’involucro, come i pannelli di listelli – identici – nell’ albergo a Bouliac di Nouvel e nella villa a Victoria di Godson, che hanno pure identici oscuranti che si aprono perpendicolarmente, mentre Ban, che secondo la tradizione giapponese è un artista nell’uso del legno per strutture e rivestimenti, nel recente museo di Aspen riveste completamente l’edificio con un grigliato “a canestro” di legno carta e resina, rendendolo astratto nel contesto.
Sembra non ci sia limite alle possibilità – gli esempi sopraddetti sono di necessità limitati – e questa è la grande ricchezza prospettica e non classificabile del contemporaneo cui la nostra rivista di “architettura del fare” presterà continua attenzione.
Paolo Favole
Mies ha conosciuto tramite l’amico teologo Romano Guardini (veronese naturalizzato tedesco) l’Infinito di Leopardi, per cui rende totalmente trasparenti gli involucri, dal grattacielo di vetro 1921, alla casa Farnsworth 1956, dal padiglione Barcellona 1929 al museo a Berlino 1956.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, ………
io nel pensier mi fingo, ……
Così tra questa immensità
s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Giacomo Leopardi,
L’infinito, 1826