Ogni progetto è diverso; ogni committente è diverso. Il lavoro di progettazione è forse per definizione uno di quelli che richiedono maggiore capacità di adattamento e organizzazione. In questo, la luce naturale ci dà una mano. La sua capacità di condizionare e caratterizzare uno spazio (in particolare l’immagine che ci viene da esso restituita, sotto forma di campo visivo, e la sua funzionalità in termini di disponibilità e comfort) non ha paragoni con alcun altro elemento della percezione. E il modo in cui questo fenomeno avviene può in gran parte essere definito e controllato, poiché in ultima istanza dipende da fenomeni fisici (l’incontro tra una forma di trasmissione di energia e le superfici opache/trasparenti/translucide) e dall’aspetto che questi fenomeni assumono. Prendiamo due architetture note: la stanza della vasca d’acqua all’interno della Casa Gilardi, di Luis Barragan (Città del Messico, 1976) e la Menil Collection di Renzo Piano (Houston, Texas, 1987). Questi spazi prendono vita nel momento in cui l’architettura, costruita, incontra la preesistenza del campo luminoso esterno. Il loro comportamento in relazione alla luce risponde all’esigenza dei progettisti di ottenere un risultato preciso, in cui certe manifestazioni si verificano e certe relazioni si innescano secondo uno schema controllato. Ciò che rende tali spazi allo stesso tempo così emblematici e così risolti è l’incontro di due competenze: la capacità di immaginare un obiettivo e la capacità di ottenerlo. Ciò che rende possibile l’acquisizione di una strategia, da parte di chi osserva, è l’individuazione di regole e meccanismi che legano quei gesti a quei risultati; categorie, chiavi di lettura che ci consentano di classificare diversi casi specifici in funzione di una variabile, legata alla luce.

La categoria della distribuzione: livello minimo, secondo livello e terzo livello

C’è poco da fare: alla fine, parte dell’involucro sarà opaca e parte trasparente. Ma quanta parte? E in che posizione? E perché? Ognuno governa questo rebus a modo suo, ma la scelta di fondo riguarda la localizzazione delle sorgenti luminose. Potremmo allora darle dignità di categoria a sé, per esempio chiamandola “distribuzione”. È funzione soprattutto di numero e posizione delle aperture, e a seconda del livello può fare la differenza, sia dal punto di vista compositivo sia funzionale. Nel tempo ne sono emersi tre: distribuzione di livello minimo, di secondo livello e di terzo livello. Quanti ambienti osserviamo e viviamo, ogni giorno, illuminati da una sola finestra? Normalmente, le cucine, le camere da letto, i bagni. Molto spesso anche soggiorni, studi professionali e uffici pubblici e privati. Perché una finestra? Quali sono le conseguenze sull’equilibrio visivo e funzionale? A tale condizione diamo il nome di distribuzione di livello minimo. La cultura, la prassi, l’abitudine sono la base per una scelta che assume volentieri i contorni di una “non-scelta”. Non pensiamo mai (o quasi mai) “metto una sola finestra perché questo è ciò che garantisce la miglior illuminazione per quest’ambiente”. Molto più spesso ne prevediamo una perché pensiamo che “di più non sia necessario”. Posizioni che rispondono a una generica esigenza di economicità (di pensiero e di risorse). Tanti spazi si ritrovano illuminati da una finestra senza aver meritato un ragionamento più approfondito. Altri, tuttavia, vengono pensati fin dall’inizio con questa forma di distribuzione, così caratterizzante se usata con coscienza. Si pensi al Pantheon o a tanti progetti di Alberto Campo Baeza o Kouichi Kimura. Quale che sia il linguaggio architettonico, una distribuzione di livello minimo si caratterizza facilmente. La luce, infatti, sarà per lo più concentrata da una parte; resterà ancorata all’apertura dalla quale dipende e lo spazio tenderà a progredire verso luminanze inferiori con forte direzionalità. Al di fuori di esigenze scenografiche (un museo, una hall, qualcosa da sottolineare), la scelta di monodirezionalità può essere più un’abitudine che una decisione vera e propria. Non è un problema marginale. Il tutto, volendo, è misurabile con i valori puntuali e medi del Fattore di Luce Diurna e dell’Illuminamento (ne parleremo nei prossimi appuntamenti). L’esempio riportato denuncia una scarsa penetrazione in profondità. Sarà probabilmente necessario contare sulla luce artificiale su tavolo e cucina per gran parte della giornata.

Altra conseguenza per gli utenti è il rischio di abbagliamento (discomfort visivo fastidioso o invalidante, legato alla difficoltà o incapacità della pupilla di adattarsi a intensità troppo diverse): qui si tratta di equilibrio di luminanze, i cui valori in cd/mq facilmente indicherebbero contrasti netti tra la finestra e il suo intorno e la media del resto del campo visivo. Che succede se apriamo una seconda finestra? In breve, il protagonismo della prima verrà bilanciato. Sarà una distribuzione di secondo livello. L’equilibrio nel campo visivo inizierà a giocarsi sulla differenza di ruolo tra due personaggi (coprotagonisti; protagonista e antagonista; protagonista e spalla), che intratterranno un dialogo compositivo e funzionale nel quale l’ambiente sarà più complesso, in particolare se le finestre hanno fronti o giaciture diversi (due facciate opposte; una verticale e una zenitale). Il coordinamento tra posizione/intensità della luce e distribuzione delle funzioni beneficerà di una maggiore articolazione e non sarà necessario “sacrificarne” una (ogni funzione con la sua luce). Lo spazio sarà poco direzionato (allontanandosi da una delle sorgenti, la progressione sarà verso minori luminanze, ma in qualche altra parte i valori torneranno ad alzarsi per la presenza della seconda) e aumenterà il comfort visivo, quello che comunemente viene definito “equilibrio di luminanze”. Per chi ha dimestichezza con gli output illuminotecnici, sarà evidente che le isolinee (linee che uniscono punti di uguale valore) inizieranno a sfiorarsi o mescolarsi e i valori puntuali tenderanno a salire anche nelle zone più profonde, indicando maggiore uniformità.

Al crescere del numero di aperture, aumentano le possibili combinazioni, gli effetti, la complessità dello spazio e della composizione. È una distribuzione di terzo livello quella condizione in cui le finestre (o le sorgenti luminose) siano più di due, ovvero da tre in su. In un progetto “ordinario”, poniamo un appartamento residenziale, tale combinazione si presenta per lo più in soggiorni, grandi spazi di distribuzione, zone giorno articolate (magari salotto con cucina e pranzo). In uffici, aule scolastiche, biblioteche, sarebbe la condizione da preferire. Anche laddove cambi la volumetria in sezione, poniamo in presenza di una doppia altezza, la moltiplicazione delle funzioni porta spontaneamente alla necessità di enfatizzare con la luce porzioni diverse dell’ambiente. Il Raumplan di loosiana memoria aveva senso solo se la luce accompagnava l’articolazione volumetrica interna (di cui peraltro le finestre erano l’unico indicatore esterno). L’equilibrio visivo e compositivo non si basa più su un singolo protagonista o sul dialogo tra due personaggi, bensì sulla moltiplicazione delle luminanze, con conseguente continua variazione dell’intensità e degli stimoli. Lo spazio non è più direzionato, anzi, comunica a chi lo occupa che non c’è un punto o porzione specifica verso cui rivolgersi, in particolare. O per lo meno che le parti dell’ambiente in cui si svolgono le funzioni principali (o che fungono da “snodo” visivo) sono sottolineate in modo bilanciato. A una indicazione di tensione e movimento, si sostituisce una sensazione di equilibrio e staticità. Ciò ne fa la condizione ottimale per le zone, per l’appunto, in cui si prevede di “stare”; che si tratti di un soggiorno, di uno studio professionale o di una classe d’asilo.
La distribuzione di secondo e quella di terzo livello corrispondono alla cosiddetta multidirezionalità, da anni tema centrale nella progettazione illuminotecnica naturale, come sintesi delle conseguenze dell’aumento numerico delle aperture. La si può trattare come vero e proprio strumento di progettazione preliminare, o come obiettivo da raggiungere nell’iter compositivo e funzionale.

 

Menzione speciale merita anche la luce zenitale. Avremo occasione di valutarne l’efficienza in termini quantitativi, ma già come strumento distributivo è peculiare. Se la ricerca di multidirezionalità passa per la progettazione di aperture su fronti diversi, con differenti giaciture, quale e quanta parte del campo visivo riusciamo a coprire con potenziali sorgenti luminose? I soffitti, in questo senso, restano per lo più piani muti e monotoni, privi di variazioni e stimoli, sui quali peraltro tendono ad accumularsi le principali “sacche d’ombra” (del resto, la luce naturale procede dall’alto verso il basso…). Aprire una sorgente in un soffitto, svuotarne una parte, accendendo una luminanza, lasciando la luce libera di entrare, può essere un’azione molto più efficace di tante altre, se la ricerca è quella di bilanciamento e multidirezionalità. Laddove disponibile, è anche l’unico modo per portare luce in profondità, farle raggiungere porzioni dello spazio e del campo visivo che altrimenti resterebbero in ombra o scarsamente illuminate. Avere luce dall’alto significa anche rendere meno lineare la distribuzione delle intensità nello spazio e, in virtù della sua posizione nel campo visivo, diminuire e contrastare il rischio di abbagliamento.

Non si tratta, come già detto, di scelte stilistiche o di linguaggio architettonico (le quali attengono piuttosto al campo personale e variegato del gusto, del talento, della cultura), quanto piuttosto di una chiave per la corretta lettura e condivisione di caratteristiche e suggestioni spaziali, in bilico tra il rigore scientifico e la soggettività. Se i termini che usiamo e la lingua con cui ci esprimiamo sono solo la punta dell’iceberg del complesso impianto cognitivo con cui il pensiero procede, è tempo che la progettazione della luce naturale abbia il suo vocabolario.