Abbiamo già analizzato nei precedenti articoli i tipi di luce che è possibile ottenere a partire dalla disponibilità delle componenti del campo luminoso esterno. Adesso è giunto il momento di indagare la condizione particolare in cui il gradiente di passaggio da luce a ombra (o da alte a basse luminanze) è stretto, ovvero quando si passa rapidamente da una porzione del campo visivo in cui l’intensità è forte a una condizione di maggiore oscurità del resto dell’ambiente. Abbiamo definito questa condizione “luce liquida” nel racconto iniziato dalla definizione di Alberto Campo Baeza di “luce solida”.
In generale, in tutte le architetture nelle quali è più forte la sensazione che la luce sia piegata alle esigenze della vista, tolto il forte protagonismo della componente diretta (la “luce solida”), si agisce governando e direzionando i flussi luminosi, manipolando la forma dell’involucro e piegando i piani intorno alle sorgenti primarie, ovvero le aperture. Il controllo della materia e la sua plasticità giocano un ruolo essenziale nella diminuzione del gradiente luminoso e, conseguentemente, nell’aumento dei contrasti.

Il meccanismo alla base del processo è quello della cosiddetta riflessione diffusa, definizione scientifica di un fenomeno tanto comune quanto poco considerato nella prassi progettuale. Avviene quando la luce (diretta, diffusa o riflessa) colpisce una superficie ruvida, o comunque non perfettamente liscia, per poi venire riemessa in tutte le direzioni. A differenza della riflessione speculare, in grado di riemettere ogni singolo fotone (salvo quelli assorbiti) con un angolo uguale e opposto a quello di incidenza, la riflessione diffusa comporta una riemissione più caotica e imprevedibile, a livello microscopico, ma più familiare e frequente. In edilizia, le superfici sono normalmente non speculari; a eccezione di vetri, ceramiche vetrificate e metalli lucidi, raramente abbiamo la sensazione di un materiale “specchiato”. Al di là della fisica tecnica, il punto d’incontro tra la manipolazione plastica delle superfici e la capacità di riflessione diffusa dei materiali impiegati è ciò che soggiace ad alcune tra le architetture più iconiche del nostro tempo: la cappella di Ronchamp di Le Corbusier, le atmosfere soffuse di Kouichi Kimura, gli spazi scultorei di Manuel Aires Mateus. Le texture materiche e gli spessori, strutturali oppure ottenuti con la leggerezza di pannelli, prendono corpo nel momento in cui si piegano e si articolano intorno alle aperture, a zone di discontinuità, anche tra interno e interno, attraverso le quali i flussi luminosi sono liberi di circolare. La luce intensa proveniente “dall’altra parte” incontra subito l’opacità della materia ed è costretta a deviare, per riflettere di nuovo su superfici prossime. La sensazione che l’imprevedibilità della luce naturale venga piegata e addomesticata alle esigenze della progettazione può sembrare magica nella sua capacità dare corpo a qualcosa di fisicamente incorporeo. La luce, ancorché (resa) indiretta, rimane concentrata in una porzione del campo visivo, evidenziandolo e rendendolo, e rendendosi essa stessa, protagonista secondo il principio per cui la luce diventa visibile nel momento in cui incontra un oggetto e ne viene riemessa. Il resto dell’ambiente tende ad assorbire rapidamente l’energia che si espande da questo dispositivo, abbassando velocemente il livello di intensità e aumentando ulteriormente la sensazione di concentrazione. Inoltre, la luce riflessa in modo diffuso annulla il rapporto tra la posizione del sole e quella della luce all’interno, regalando allo spazio una staticità apparentemente indifferente allo scorrere del tempo.

Il Museo di Arte Contemporanea a Cordoba, Nieto Sobejano Arquitectos. ©Roland Halbe

Negli spazi di distribuzione del Museo di Arte Contemporanea a Cordoba progettati da Nieto Sobejano Arquitectos, pesanti prismi di cemento scendono dal soffitto, abbassando il punto in cui l’involucro guadagna la permeabilità alla luce. La loro forma e le riflessioni che avvengono sulle superfici esterne lasciano filtrare una luce diffusa e concentrata, il cui effetto di “liquidità” è enfatizzato dalla posizione radente dei dispositivi, adiacenti a pareti verticali. Il soffitto è alto e buio cosicché il contrasto aumenta e, con esso, la drammaticità dello spazio. Sebbene l’effetto finale sia piuttosto gassoso che liquido, nella hall della Barnes Foundation, progettata da Tod Williams con Billie Tsien Architects a Philadelphia, la dinamica è analoga, così come la sensazione di plasticità dello spazio, resa evidente dalla manipolazione della forma che poggia sulla sapiente modulazione delle luminanze nel campo visivo. In qualche modo, anche la scenograficità barocca dell’Estasi di Santa Teresa del Bernini (Santa Maria della Vittoria, Roma, 1647-1652) ricerca lo stesso effetto: la luce sembra scaturire dalle forme piuttosto che dal rapporto dell’involucro con cielo e sole (tant’è che la sorgente reale è invisibile all’osservatore).
Le forme con cui è possibile intercettare i raggi del sole e costringerli alla riflessione, prima che entrino nel campo visivo, sono tante quante le modalità di dare corpo ai materiali e alle idee creative di chi progetta, ovvero infinite. Il meccanismo di fondo, tuttavia, è sempre lo stesso.

Nella gestione ordinaria di un progetto edilizio, apparentemente, tutto ciò sembra non avere grande peso, dato che un museo, una chiesa, una fondazione sono rare commesse nella vita professionale di un architetto. In realtà, la comprensione di questa dinamica apre possibilità indipendenti dalla scala (del manufatto o del budget). Si pensi a quante volte capita a un progettista di avere a che fare con un’apertura sul tetto e con un controsoffitto, ad esempio. L’idea è semplicemente quella di piegare le superfici intorno alla luce per caratterizzare architettonicamente un dispositivo che, troppo spesso, rientra nel solo ragionamento tecnologico. Tutto ciò può investire la struttura (cemento armato, metallo o muratura) o semplicemente pannelli leggeri (cartongesso, lamiera piegata, legno). Il risultato può sorprendentemente unire l’esigenza di illuminazione naturale, requisito primario del processo edilizio, con la variabilità delle soluzioni date dalla manipolazione di un manufatto apparentemente più legato alla gestione degli interni. Si creano elementi intorno alle finestre dai quali la luce naturale scaturisce, per lo più senza che la sorgente sia visibile. Se il tutto avviene sul soffitto, le chiamiamo “lampade a luce naturale” e sono oggetti che per forma, caratteristiche superficiali e funzionalità riescono facilmente a qualificare una stanza. Da qui a ulteriori riflessioni sulle finiture il passo è breve: le forme di questi volumi possono essere squadrate, tondeggianti o articolate; le superfici di cui si compongono possono essere grezze o lavorate, bianche o colorate, rivestite, translucide ecc. La necessità di dotazione e controllo della radiazione luminosa diventa pretesto per lo sviluppo di un linguaggio di volta in volta diverso.

Corey Gaffer, Sky House, Salmela Architect

Il motivo per cui più frequentemente tali dispositivi si collocano sul soffitto è semplice: richiedono una libertà, uno spazio e una distanza dalla distribuzione delle funzioni quotidiane che difficilmente si trova sulle pareti perimetrali verticali (spesso ingombre di percorsi, arredi e impianti). I soffitti, anche quando coincidono con l’ultimo solaio, sono spesso superfici continue e indifferenziate. Nonostante la potenziale libertà progettuale (nelle variazioni volumetriche, nel trattamento superficiale, nel colore), la loro immagine raramente viene considerata negli aspetti compositivi. Un esempio per tutti, le Sky House di Salmela Architect. Se quello che ci interessa è una coerenza metodologica tra la progettazione delle forme e il rapporto con la luce, le lampade a luce naturale rappresentano un nuovo mattoncino nella direzione di una maggiore integrazione tra i dispositivi costruttivi e la ricerca di espressività.