Ne La conquista dell’America, Tzvetan Todorov impostava la sua riflessione sul “problema dell’altro” come lo scontro fra due concezioni dello stare al mondo basate su due diverse forme di comunicazione o “dimensioni dell’attività simbolica”: una, quella europea, che privilegiava l’efficacia della comunicazione interumana, l’altra, quella indigena, incentrata sulla capacità dell’uomo di comunicare con il mondo. La vittoria storica del paradigma eurocentrico della comunicazione interumana era indicata da Todorov come origine della nostra attuale incapacità di sentirci in armonia con il mondo. Un mondo - che comprende l’ambiente naturale, ma anche le altre specie viventi - che abbiamo allontanato da noi attraverso la costruzione culturale del concetto di “natura” come alterità, intesa a seconda dei casi come risorsa da sfruttare o come paradiso perduto da evocare nostalgicamente. Da diverse zone del pianeta provengono oggi, nel campo dell’architettura, possibili antidoti a questa condizione apparentemente insanabile di separazione. Nelle aree rurali della provincia del Surin, nel nordest della Tailandia, Boonserm Premthada, fondatore nel 2003 di Bangkok Project Studio, ha completato nel 2020 la realizzazione di un insediamento interamente concepito come luogo di coesistenza fra l’essere umano e un’altra specie vivente: l’elefante. Il cosiddetto Elephant World è un ambizioso progetto promosso dal governo tailandese volto a restituire alle diverse comunità presenti sul luogo - in particolare la popolazione di etnia Kui e i più di duecento elefanti che abitano la zona - un rapporto armonioso con il proprio ambiente di vita, gravemente minacciato negli ultimi decenni da una gestione estrattivista del territorio che ha provocato la distruzione di vaste porzioni di foresta, dalla quale entrambi traevano gran parte del proprio sostentamento.
L’elefante riveste storicamente un ruolo centrale nella cultura tailandese ed è particolarmente importante per i Kui, che considerano questi animali membri a tutti gli effetti del nucleo familiare, condividendo con essi gli spazi della propria abitazione dotata tradizionalmente di una pensilina aggettante a tutta altezza sotto la quale trovano riparo i membri più ingombranti della famiglia - in un rapporto di vera e propria simbiosi fra essere umano e animale.
Il nucleo principale del progetto, situato in un’area pianeggiante e arida ai margini di un villaggio rurale, non lontano da alcune sacche ancora intatte di foresta tropicale, si compone principalmente di due edifici, il Cultural Courtyard e l’Elephant Museum, i quali sfidano ogni convenzione tipologica collocandosi in una zona ambigua fra l’architettura e il paesaggio, la dimensione geografica e quella archeologica, il monumento e l’infrastruttura.
Il primo consiste in una sorta di grande recinto rettangolare di 70x100 metri privo di pareti perimetrali e riparato sui quattro lati da una monumentale copertura a spiovente fortemente aggettante e rastremata lungo i bordi, sorretta da massicci plinti in cemento e spessa 1,5 metri, dedicato a cerimonie ed eventi culturali e religiosi. Sei colline artificiali alte fino a 4 metri, simili a tumuli, definiscono al suo interno una nuova topografia, una sorta di anfiteatro naturale aperto su uno dei lati che delimita lo spazio interno senza chiuderlo e che consente l’accesso agli utenti elefanti.
Il secondo edificio è un labirintico intrico di percorsi a cielo aperto racchiusi da setti murari in mattoni di argilla realizzati a mano secondo tecniche tradizionali, disposti in modo da generare una pianta compatta con quattro bracci protesi verso il paesaggio circostante. Il profilo curvo dei muri digrada in altezza dal nucleo centrale del museo verso l’esterno, ricongiungendosi alla quota della topografia, mentre la pianta si articola in quattro gallerie vetrate e in una serie di patii, diversi per forma e altezza ma anche per il trattamento del piano di calpestio, che alterna un manto ghiaioso in pietra scura a terra rossa e grandi vasche d’acqua in cui gli elefanti possono trovare ristoro, in continuità con l’ambiente circostante.
Temenos sacro, cortile, aia o semplice riparo-alloggio a scala ingrandita il primo; labirinto, piano archeologico e cittadella il secondo, entrambi evocano le figure archetipiche di un’architettura fuori del tempo e si configurano come altrettanti microcosmi, introversi nell’incorporare in sé la complessità del paesaggio o di un’eventuale forma urbana ed estroversi nello sfumare i contorni fra interno ed esterno, ambiente naturale e costruito.
In questo senso, rappresentano in modo esemplare l’idea, suggerita da Premthada, di un’architettura borderlessness, programmaticamente alla ricerca di una condizione ibrida ed eccedente. Ma non si tratta solamente di un risarcimento simbolico, come la scala monumentale degli interventi commisurata alla scala dell’elefante più che a quella umana - indurrebbe a pensare, ma anche, più concretamente, di restituire dignità a comunità finora marginalizzate, offrendo loro la possibilità di trovare condizioni di vita favorevoli senza doversi allontanare dal proprio luogo di origine per cercare occupazione o per essere sfruttati (è il caso degli elefanti ma non solo) nell’industria turistica.
Questo presuppone innanzitutto la riparazione dell’ecosistema naturale e il ripristino dell’accesso alle risorse idriche della regione. Le colline artificiali del Cultural Courtyard, oltre a rappresentare un habitat ideale per gli elefanti, sono ottenute dal terreno di riporto dello scavo con cui è stato realizzato il bacino di raccolta dell’acqua piovana subito adiacente, necessario a soddisfare il fabbisogno di acqua di questi grandi animali, che ammonta a 8.000 metri cubi al mese. Altre sorgenti sono state ottenute a poca distanza grazie all’estrazione della roccia basaltica usata per il rinforzo delle colline.
Una foresta interna di 42 alberi, che cresceranno attraverso i fori della copertura del Cultural Courtyard, completerà questo nuovo paesaggio, fornendo ombra e nutrimento agli elefanti e ricevendo le cure necessarie dalla popolazione Kui. Come in altri casi in cui dalle aree rurali dei paesi asiatici sono provenute proposte radicali in cui un approccio sostenibile e rispettoso dell’ambiente e la valorizzazione delle risorse locali ha prodotto raffinate sperimentazioni architettoniche, l’esperienza dell’Elephant World dimostra come una risposta all’attuale crisi del progetto possa provenire proprio da condizioni apparentemente marginali, caratterizzate da scarsità di risorse e da storie di sopraffazioni e sfruttamento.
Nella sua aderenza a condizioni del tutto specifiche e difficilmente replicabili e nella sua risposta a esigenze primarie e a bisogni emotivi - dalla semplice sussistenza al recupero di forme di rituali collettivi - il progetto suggerisce un potente cambio di prospettiva, proponendo l’utopia di un tempio dedicato alla coesistenza e all’armonia con quello che siamo soliti chiamare “natura”.
Scheda progetto
Lead architect: Boonserm Premthada
Design team: Boonserm Premthada, Nathan Mehl
Engineer: Preecha Suvaparpkul
Engineering & construction: Rattanachart Construction Co, Ltd. (Elephant Museum); Evotech Co, Ltd. (The Cultural Courtyard)
Committee: Surin Provincial Administration Organisation
Consultants: Surin Provincial Administration Organisation
Awards: Premthada has been one of the winners of the 2018 Global Award for Sustainable Architecture under the patronage of UNESCO, and in 2019 he received the Royal Academy Dorfman Award for his sensitivity to local contexts
Photos: Spaceshift Studio