Com’è cambiato il vostro lavoro dal punto di vista operativo e come avete gestito questo periodo di emergenza?
Da più di vent’anni, per bioritmo naturale, la notte è per me il momento della creatività e della progettazione. Per questo motivo sperimento, il così detto “smartworking” (notturno), dall’inizio della mia attività lavorativa diligentemente connesso al server dello studio. Committenti, consulenti, collaboratori e gli architetti dello studio sono abituati al loro arrivo alla mattina, a trovarsi le mie e-mail e disegni notturni in attesa delle loro elaborazioni e dei loro commenti. Personalmente quindi, il periodo di lockdown dal punto di vista puramente operativo non è stato un’esperienza sconvolgente, lo stesso è avvenuto per il resto dei componenti dello studio che si sono rapidamente adattati al lavoro in remoto tramite vpn e a trasformare gli incontri personali in videocall… infinite. Fatta questa premessa, credo di non dire nulla di sconvolgente nell’affermare che il lavoro fuori dagli uffici tradizionali non si è dimostrato nel complesso per nulla efficiente perché non lo sono gli strumenti e gli spazi in cui lo si fa. Il tempo del lavoro ha invaso lo spazio domestico, fatto di bambini che strillano, cani che abbaiano ma soprattutto di reti wifi ballerine e software poco intuitivi.

Al di là della situazione contingente questa pandemia pone una serie riflessioni sul ruolo della progettazione legato a moltissimi temi. A partire dalla città e dalle sue trasformazioni nel prossimo futuro. Quali pensiate possano essere gli insegnamenti da trarre e quali le strategie per uno sviluppo urbano sostenibile?
Il Virus ha fermato il tempo e ci ha imposto di riflettere su noi stessi. Il meccanismo si è interrotto, nulla sarà come prima. Come nel film The Truman Show abbiamo scoperto il trucco: ci sono altre vite possibili. Abbiamo capito che molti di noi potrebbero lavorare e vivere diversamente, in un modo più ibrido, lasciando più spazio al tempo personale.  Partendo da questi presupposti dobbiamo ripensare ai modelli di sviluppo e più pragmaticamente alle caratteristiche che devono avere gli edifici e gli spazi urbani che innanzitutto “non sono per sempre”, anzi come ci ha dimostrato il Covid19 quello che fino a ieri era assolutamente vero, oggi non le più. L’adattabilità e la flessibilità del costruito e cioè la resilienza, termine purtroppo inflazionato, descrive perfettamente cosa dovremmo aspettarci e come progettare gli spazi del futuro. Affinché non sia un semplice proclama, sarà fondamentale progettare a priori il ciclo di vita degli edifici e la loro versatilità per accogliere i cambiamenti futuri. Quand’anche gli edifici diventassero obsoleti o non più funzionali, la progettazione del loro ciclo di vita e dei materiali con cui vengono realizzati deve prevedere che possano essere riciclati e “smontati” invece di venire demoliti.

Un altro dei temi emersi è senza dubbio quello della centralità della casa, messa a dura prova da un lungo periodo di convivenza forzata. Come dovranno essere le case del futuro in termini di ambienti, spazi, materiali e tecnologie utilizzate?
La clausura di questi giorni ci ha trasportati in una modalità ibrida di vivere e lavorare che lascia più spazio al tempo personale. La rivoluzione che mi immagino è quella di un design che ci accompagni durante lo smartworking a casa e nei luoghi di lavoro non tradizionali. In questo senso contano sicuramente più le idee dei materiali, dando per acquisito che questi debbano essere sostenibili e riciclabili, così come anche prediligere tecnologie wireless e non legate a infrastrutture fisiche. Per consentire e agevolare questa trasformazione, basandomi su un’idea che sto personalmente sperimentando a casa da circa vent’anni, mi immagino kit tecnologici e strutture, dei “nidi” componibili, da utilizzare magari sul terrazzo di casa, in salotto oppure in un giardino. Oggetti che non siano solo cellule lavorative per isolarsi o per lavorare ma anche oggetti utili magari per vedersi un film o leggersi un libro. Sulla base di questo modulo “primordiale” sto sviluppando un prototipo indoor e outdoor con alcune aziende dell’arredamento. Per assecondare questa esigenza di spazio ibrido ritengo fondamentale ripensare allo spazio casa prevedendo, ove possibile, terrazze o spazi comuni all’aperto che possano dilatare con pochi costi lo spazio domestico. Mi immagino “terrazze speciali”, normate urbanisticamente come “cabriolet”, mutuando un termine automobilistico. Intendo dire spazi che in base al clima ed alle stagioni si possano vestire e svestire, aprire e chiudere.

L’eccessiva diffusione del digitale mal si concilia con l’architettura che è un’esperienza concreta, fisica. Avremo ancora bisogno di spazi costruiti? Com’è possibile conciliare questi due aspetti?
A dire il vero, secondo me, digitale e architettura e spazio urbano si sposano perfettamente: il costruito offre lo spazio, il luogo fisico, che ospita a sua volta le nostre esperienze digitali, semplicemente accogliendo la tecnologia necessaria. Anche se pensassimo a qualcosa di più immersivo, tipo realtà virtuale, a maggior ragione l’architettura e la progettazione dello spazio sarebbero presenti, sono la base di qualsiasi modo virtuale, lo rendono “vero”. Mi viene il dubbio che la domanda alluda ad una sorta di “mondo contactless” come lo stiamo immaginando in questi giorni, fatto di fotocellule, telecamere e sensori vari. Da questo punto di vista ritengo che in parte non si debba prescindere dal valutare questo momento storico come “emergenziale” e quindi destinato a diluirsi nel suo “ortodossismo contactless”. D’altro canto, l’infinita adattabilità umana (la resilienza!) consente di guardare il futuro con serenità: da un giorno all’altro ci siamo tutti adattati e dotati di guanti, mascherine e abbiamo iniziato a guardare all’altro (uomo/donna) in base al “metro di distanza” quasi, a mettere in pratica le teorie dell’antropologo Edward T. Hall che elaborò il modello delle distanze interpersonali, distanza prossemica!