Com’è cambiato il vostro lavoro dal punto di vista operativo e come avete gestito questo periodo di emergenza?
Ancora prima delle misure di isolamento emanate da governo e regioni, parte del nostro staff ha cominciato a lavorare da remoto. Attualmente stiamo ancora tutti lavorando da casa, connessi ai nostri pc accesi in studio, in modo che la condivisione dei file e il loro salvataggio proseguano senza soluzione di continuità. Le riunioni, sia internamente sia con clienti e imprese, si svolgono al telefono o in video-conferenza. Nei cantieri, riattivatisi in queste settimane, sono state messe a punto modalità di controllo ai sensi delle prescrizioni vigenti e minimizzando la presenza di persone e la durata degli incontri. Possiamo dire che in questo delicato periodo tutte le attività hanno avuto seguito, a eccezione della pausa sui cantieri che è stata effettuata ai sensi dei decreti: i progetti in corso sono stati continuati, alcuni nuovi progetti sono stati iniziati, nuove gare sono state intraprese.

Al di là della situazione contingente questa pandemia pone una serie riflessioni sul ruolo della progettazione legato a moltissimi temi. A partire dalla città e dalle sue trasformazioni nel prossimo futuro. Quali pensiate possano essere gli insegnamenti da trarre e quali le strategie per uno sviluppo urbano sostenibile?
Non crediamo che i tempi di costruzione della città possano essere influenzati dalla pandemia in corso. Una città si costruisce in decenni, secoli. La città è nata per la necessità delle persone di riunirsi: città e distanziamento sociale rappresentano una contraddizione in termini. Ciò non significa, ovviamente, che la costruzione della città possa prescindere dal verde (che influenza le temperature e la qualità dell’aria, oltre che gli stili di vita), dalle attrezzature sanitarie (si pensi alle unità di terapia intensiva che hanno salvato tanti malati in Germania, dove esse sono in numero triplo rispetto all’Italia), da nuovi usi dello spazio pubblico, da una diffusione capillare delle piste ciclabili, da nuove modalità della mobilità, e via dicendo. Ma tutte queste dotazioni e soluzioni sono necessarie per la città a prescindere dall’emergenza Covid. È inoltre del tutto strumentale riflettere oggi su un ipotetico, e irrealistico, ritorno alla vita nei borghi, in una novella arcadia campestre. Se questi ragionamenti celano proposte di New Urbanism alla Calthorpe, possiamo comprenderle, anche se non le condividiamo. A nostro avviso la città rimane il luogo laddove una sufficiente densità consente certi stili di vita: il tema è come essi possono trarre beneficio dal verde e dal paesaggio, in forme compatibili con l’urbanizzazione. Agricoltura, considerata come natura ormai oggi fortemente antropizzata, e natura protetta devono rimanere insediate in ampissime zone laddove il costruito non dovrebbe essere ammesso. Su tutti questi temi, l’attuale pandemia poco rileva. Se poi pensiamo alle urbanizzazioni informali, ci rendiamo conto come le malattie e le epidemie siano, a far data dal sorgere di tali insediamenti circa un secolo fa, problema cruciale, per situazioni in cui spesso nemmeno la fognatura e i servizi basilari sono assicurati. Questi appaiono temi di grande urgenza, a prescindere dal Covid e non in contraddizione con esso.

Un altro dei temi emersi è senza dubbio quello della centralità della casa, messa a dura prova da un lungo periodo di convivenza forzata. Come dovranno essere le case del futuro in termini di ambienti, spazi, materiali e tecnologie utilizzate?
Anche sul tema dell’abitazione, a nostro avviso la pandemia poco influisce: non è a causa di essa che le case dovrebbero avere dei balconi dove poter desinare, spazi dove poter svolgere attività anche lavorative, tetti dove insediare giardini (idea che peraltro ha quanto meno cent’anni, senza scomodare Semiramide: spacciarla per novità è piuttosto avvilente). In tema di tecnologie, sicuramente ci potranno essere dei miglioramenti e delle precauzioni per contrastare le epidemie (soprattutto sul ricircolo dell’aria e sul suo trattamento, sulla gestione delle acque potabili, piovane e reflue, dei rifiuti), ma anche per la casa siamo convinti che la sua storia plurimillenaria poco possa essere deviata dalla pandemia in corso.

L’eccessiva diffusione del digitale mal si concilia con l’architettura che è un’esperienza concreta, fisica. Avremo ancora bisogno di spazi costruiti? Com’è possibile conciliare questi due aspetti?
Lo spazio costruito è ciò che permette all’uomo di prendere posto nel mondo. Quando non ci sarà più bisogno di spazi costruiti significherà che l’umanità avrà avuto fine. Questo non toglie che ogni generazione saprà sfruttare al meglio le invenzioni e le innovazioni della sua epoca: proprio il periodo di forzato isolamento ci ha fatto comprendere come sia possibile continuare a lavorare pur in queste condizioni, sfruttando le tecnologie esistenti. Sicuramente in futuro ci saranno ulteriori opportunità, anche in tema di lavoro a distanza, di videoconferenze o ancor più, considerando tecnologie immersive. Nonostante tutto ciò, l’essere umano continuerà a cercare il contatto con i suoi simili, in quanto le esperienze virtuali costituiscono mero surrogato dell’esperienza fisica e sono sensate esclusivamente se ad essa prodromici: il rapporto affettivo, il rapporto lavorativo, il rapporto tra maestro e allievo non sarà superato dal digitale, fintantoché il pensiero umano non sarà sopraffatto da altre mire, eventualità che riteniamo sminuente e in ogni caso insostenibile nel lungo periodo.