©S. Anzini

Com’è cambiato il vostro lavoro dal punto di vista operativo e come avete gestito questo periodo di emergenza?
Abbiamo approfittato di tutte le potenzialità della connessione digitale, per gli Atelier(s) non proprio una novità: tre sedi in tre città, due Paesi, Genova, Milano e Parigi, Italia e Francia avevano già fatto, da almeno dieci anni, di questa modalità la prassi corrente. Annullati tutti gli eventi, i progetti culturali paralleli all’attività professionali dello studio e la mia attività accademica di visiting professor portati avanti, quando possibile, attraverso webinar e piattaforme di videoconferenza. Ora, i miei collaboratori e io calibriamo le presenze sui cantieri e, nei tre studi, ci stiamo ancora turnando. Una forma combinata di presenza de visu e di smart working è la soluzione più adeguata in questo momento. Non c’è fretta, questo momento può essere un’occasione per migliorare alcuni aspetti e implementare in maniera intelligente gli strumenti del progetto ricercando il giusto equilibrio tra di essi, potenziando il dialogo con i vari attori del processo progettuale, dalle committenze, alle aziende, alle imprese.

©Ernesta Caviola

Al di là della situazione contingente questa pandemia pone una serie riflessioni sul ruolo della progettazione legato a moltissimi temi. A partire dalla città e dalle sue trasformazioni nel prossimo futuro. Quali pensiate possano essere gli insegnamenti da trarre e quali le strategie per uno sviluppo urbano sostenibile?
Prima della pandemia quattro macro-temi erano oggetto di esercizio intellettuale e di dibattito progettuale sia sul politico, sia su quello professionale: la relazione tra pubblico e privato; l’eccesso di comunicazione vs isolamento, l’equilibrio tra lavoro e vita personale; la densità urbana e la rarefazione dei centri minori; la mobilità vs la stabilità. Da questi focus di governo del territorio derivava la gestione progettuale dei luoghi domestici, di lavoro, dell’intrattenimento, della cultura, dell’educazione… La pandemia ha, in effetti, rimesso in discussione il riferimento unico per ogni situazione e per ogni ambiente: per casa, scuola, educazione, retail e centri commerciali, teatri, cinema, palestre, parchi non ci sarà un unico modello, neppure per il tempo breve che aveva segnato i cambiamenti degli ultimi dieci, quindici anni. L’apprendimento permanente al quale ci costringe il digitale ha ulteriormente accelerato il ritmo di cambiamento. Oggi siamo in un tempo che è somma di istantanei presenti che costruiscono, a loro volta, una libreria di passato e un tempo di attesa. Il progetto d’architettura si dovrà adeguare a questa permanente impermanenza. Senza indugiare a nostalgie sterili e peggiorative della qualità di vita. Per tornare alla domanda iniziale, il buon senso pre-Covid induceva a riflettere sull’ambiente, sui cambiamenti climatici e questo resta l’elemento dal quale non è più possibile prescindere, senza falsificazioni e visione opportunistiche. Ed è il punto dal quale l’architettura deve ri-acquistare la sua forza progettuale. “Time as a possibility to change.”

©Luc Boegly

Un altro dei temi emersi è senza dubbio quello della centralità della casa, messa a dura prova da un lungo periodo di convivenza forzata. Come dovranno essere le case del futuro in termini di ambienti, spazi, materiali e tecnologie utilizzate?
Come dicevo, non credo che possa esistere un tema prescrittivo su come dovranno essere le case del futuro. Mario Bellini ha affermato, in una recente intervista a Il Foglio, che nulla muterà, facendo riferimento alle case di Pompei che, a voler vedere bene, non sono così diverse dalle nostre. C’è del vero in questa affermazione anche se è chiaramente una provocazione in controtendenza al tema della necessità quasi convulsa di cambiamento che agita l’architettura e il design sia pure solo in superficie. L’abitare si è profondamente evoluto nel tempo, ma dal concetto di casa-rifugio non sono immuni neppure le generazioni più recenti, GenY, GenZ… per non parlare dei millennials che, sul tema, manifestano dei comportamenti “ultra-ortodossi”. Le case sono orientate al benessere, alla salubrità, alla condivisione di spazi per le attività comuni, per rendere ancora più privati e più sfruttabili quelli personali o familiari. L’evoluzione dei materiali e delle tecnologie è sincrona all’evoluzione del tempo e delle esigenze. La casa si trasformerà… nella casa integrata al contesto urbano, connessa, in grado di adeguarsi e trasformarsi al cambiamento climatico. Potrà persino essere una casa mobile o, citando Dider Faustino, una sorta di guscio. La dimensione intima è, fortunatamente, destinata a prevalere su qualsiasi visione di fantascienza. Quello che importa è, proprio, in questo particolare momento, distinguere la fantascienza dall’architettura, guardare il reale da dentro e non da fuori secondo la logica contemporanea che ha portato la residenza ad essere soltanto una questione di facciata e non una questione di relazioni individuali collettive.

©Ernesta Caviola

L’eccessiva diffusione del digitale mal si concilia con l’architettura che è un’esperienza concreta, fisica. Avremo ancora bisogno di spazi costruiti? Com’è possibile conciliare questi due aspetti?
L’uomo non è un ologramma. La fisicità dell’essere umano porta con sé l’esigenza immutabile della protezione, del rifugio, del luogo di incontro collettivo. Non è eccessiva la diffusione del digitale, è un dato di fatto, non una questione di misura. Né ha senso affermare con arrogante presunzione di saggezza “dipende da come si usa”. Si usa come si riesce con le cose nuove, non sperimentate al pieno della loro potenzialità, relegate a una dimensione ludica parallela a un quotidiano ancora tradizionale (chiaramente sto parlando di tradizione molto recente). Si vive, anche ora che abbiamo dovuto rallentare, in un’evoluzione accelerata e inarrestabile che mescola i concetti di sincronia e diacronia. La conciliazione dei momenti è nell’evoluzione delle esperienze. Amo ripetere “noi siamo tempo”, la nostra vita di esseri umani e quello che produciamo sono legati a segnature di calendario nel vano tentativo di fermare il tempo. Ma quelle segnature rappresentano un tempo istantaneo se correlato allo storico susseguirsi di presente che contiene la premessa del futuro e che diventa insieme passato. Il digitale crea, con l’enorme mole di dati che produce e registra, un “passato continuo”. Gli aspetti digitale e fisico si conciliano in ogni nuova generazione in emersione che, attraverso strumenti inattesi e inaspettati, determinerà immutabilmente passato, presente e futuro. “Tomorrow is the yesterday future”.