Com’è cambiato il vostro lavoro dal punto di vista operativo e come avete gestito questo periodo di emergenza?
In Progetto CMR, seguendo le disposizioni, abbiamo tenuto gli uffici chiusi da marzo fino a maggio, trasferendo tutta l’operatività in remoto. Il passaggio è stato gestito senza particolari ricadute sulla produttività, in quanto la nostra azienda aveva già deciso di potenziare l’infrastruttura informatica anni fa, portando tutti i server in cloud già nel 2015 e permettendo così a tutti i nostri collaboratori di accedere ai documenti di lavoro ovunque si trovassero. Questa è stata la prima volta in cui ci siamo ritrovati a essere tutti contemporaneamente in remoto, gestire 150 persone a distanza non è stato sicuramente semplice, ma l’essere da sempre abituati a lavorare per team e su obiettivi ci ha facilitati enormemente nell’organizzazione delle attività. Nelle settimane di lockdown abbiamo continuato a lavorare rispettando le scadenze prefissate, tenendo presentazioni con i committenti via conference call e lavorando anche su nuovi concept totalmente in remoto. I cantieri sono le attività che hanno subito un contraccolpo maggiore da tutta la situazione: il fermo ai lavori imposto per legge ha inevitabilmente comportato dei ritardi, ma ci stiamo impegnando al massimo, insieme a committenti e alle imprese, per recuperare. Dal 4 Maggio i nostri uffici sono riaperti, abbiamo optato per un rientro graduale contingentando rigidamente gli accessi per evitare sovraffollamenti e permettere a tutti di poter lavorare in totale sicurezza. In questa fase di transizione, lo smart working sarà ancora ampiamente utilizzato, alternandolo alle più classiche modalità di lavoro “offline”.

Al di là della situazione contingente questa pandemia pone una serie riflessioni sul ruolo della progettazione legato a moltissimi temi. A partire dalla città e dalle sue trasformazioni nel prossimo futuro. Quali pensiate possano essere gli insegnamenti da trarre e quali le strategie per uno sviluppo urbano sostenibile?
L’emergenza sanitaria del Covid-19 pone la delicata quanto necessaria questione del ripensamento degli spazi urbani, in un’ottica che possa favorire un maggior senso di tranquillità, sicurezza, vivibilità. Negli ultimi anni, l’agenda urbana è stata dominata dalle “smart cities”. Il progetto SMARTci ha visti impegnati in una sfida digitale senza precedenti, includendo la tecnologia in tutti gli ambiti urbani, dalle piazze ai percorsi, nel sistema dei trasporti e nella fruizione dei servizi, in una corsa continua verso la connessione e la tecnologia. Oggi “smart” non basta più. Il passo ulteriore da compiere è verso la “SAFE CITY”: un modello di città dove la tecnologia dialoga con la necessità di sicurezza e di controllo degli spazi, per ripristinare il senso di tranquillità nelle persone. Andando dal “macro” dell’ecosistema urbano al “micro” degli elementi che lo compongono, gli edifici e i loro spazi interni, anche questi necessariamente dovranno essere ripensati in una nuova ottica che punti non solo alla sicurezza, ma anche alla flessibilità di utilizzo. Un esempio su tutti può essere il caso degli ospedali. È assolutamente indispensabile proporre piani di profondo ripensamento di queste strutture, per renderle ancora più efficienti e adattabili in casi di emergenza come quella che stiamo vivendo. Contestualmente, è utile riflettere anche sulla capacità di trasformare strutture esistenti per destinarle temporaneamente al supporto degli ospedali, quando occorre: stiamo sperimentando questa strategia nel progetto di un complesso ospedaliero in Uganda, attualmente in cantiere, dove abbiamo pensato di adibire, in caso di calamità, delle strutture di servizio che sorgeranno intorno all’ospedale (ad esempio residenze per i medici, strutture ricettive per i familiari dei pazienti, centri di formazione per il personale medico) a spazi di accoglienza e cura, di supporto all’ospedale.

Un altro dei temi emersi è senza dubbio quello della centralità della casa, messa a dura prova da un lungo periodo di convivenza forzata. Come dovranno essere le case del futuro in termini di ambienti, spazi, materiali e tecnologie utilizzate?
Questo periodo di lockdown ci ha fatto vivere e vedere la nostra abitazione con occhi nuovi: non più solo un luogo dove si mangia e si dorme, ma uno spazio che accoglie più funzioni e utilizzi, per i quali sono necessari spazi adeguati. In questi mesi, per una buona parte della popolazione professionale, le case si sono trasformate in uffici temporanei: con la penetrazione crescente dello smart working e dell’home working, è opportuno adattare gli spazi domestici anche a questa nuova dimensione. Proprio a questo proposito, con il nostro team di Industrial Design, stiamo sviluppando una serie di prodotti “home-office”, ossia elementi di arredo per l’ambito residenziale, ma che rispettano i parametri delle postazioni da ufficio. Inoltre, con Progetto Design&Build, abbiamo dato vita a un nuovo servizio di consulenza, volto a individuare e proporre le soluzioni più idonee per creare una postazione da lavoro nella propria abitazione. La casa però in questi mesi non è stata solo ufficio: per molte famiglie si è anche trasformata nelle aule scolastiche e universitarie dei propri figli ed è probabile che la didattica a distanza andrà a integrarsi con quella tradizionale anche da settembre in poi. I ragazzi hanno bisogno di spazi e arredi che rendano lo studio confortevole, così come della disponibilità di strumenti tecnologici idonei per seguire le lezioni e svolgere le varie attività didattiche. Anche gli spazi all’aperto sono diventati una risorsa preziosa. Si sono riscoperti i balconi, i giardini e i terrazzi, sia come luoghi di “decompressione”, ma anche come spazi da cui ritrovare una nuova socialità con i vicini di casa. Purtroppo non è sempre facile trovare questi spazi, ma è ipotizzabile che le ricerche di nuove abitazioni si orientino anche su questi parametri.

L’eccessiva diffusione del digitale mal si concilia con l’architettura che è un’esperienza concreta, fisica. Avremo ancora bisogno di spazi costruiti? Com’è possibile conciliare questi due aspetti?
Io non parlerei di eccessiva diffusione del digitale, quanto di una nuova frontiera che apre scenari potenzialmente rivoluzionari. Il digitale ha cambiato per sempre il nostro modo di lavorare, rendendolo più efficiente e immediato; ha cambiato il nostro modo di vivere la città, rendendo i servizi ai cittadini più facilmente accessibili e veloci; ha cambiato il modo di progettare, permettendo una sistematizzazione e condivisione delle informazioni a beneficio della precisione e dell’efficienza progettuale. Il digitale ha creato anche nuovi modi di stare insieme e condividere esperienze, ma non potrà mai sostituire il luogo fisico e le sue dinamiche: gli spazi “offline” continueranno a essere i luoghi privilegiati delle relazioni e degli scambi di idee, di esperienze, di emozioni. Fisico e digitale non vanno in conflitto, piuttosto si completano e si integrano: l’infrastruttura online, fatta di dati e di connessioni, dialoga con l’infrastruttura offline, fatta di persone fisiche e di esperienze reali, e l’una migliora l’altra. Siamo ancora ben lontani dagli scenari futuri distopici dipinti da tanti film e libri, dove il digitale prende il posto delle relazioni umane: come diceva Aristotele, siamo “animali sociali” e avremo sempre bisogno di relazionarci con il prossimo, in luoghi che siano reali e tangibili.